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imaginary soundtracks di
Gianfranco Callieri (05/07/2013)
Da
sempre le canzoni di Thomas George "Tom" Russell, californiano trapiantato
in Texas forse per suggestione nei confronti di uno degli stati più iconici della
comunità americana, hanno fatto trapelare una fortissima eco citazionista. Non
tanto per via di un continuo ricorrersi di riferimenti espliciti, o per un perpetuo
utilizzo della tecnica del namedropping, quanto per l'adesione entusiasta e ideale
ai temi di Charles Bukowski, alle atmosfere di tanta letteratura hard-boiled,
all'epos inconfondibile di numerosi racconti western. Questo per dire che, sebbene
l'ipotesi di registrare un live con orchestra potesse suscitare i più sinistri
presagi, Russell ha invece saputo sfruttare al meglio l'opportunità di aggiungere
un ulteriore tassello al mosaico frammentato (stavo per dire "postmoderno", ma
mi sono fermato in tempo, anche perché nella fabula dell'artista contano soprattutto
il fascino dell'invenzione e del gioco, non il volume delle combinazioni o l'ampiezza
della competizione sincretista) del suo universo al tempo stesso antico, per i
diversi elementi appartenuti alle culture narrative del passato di cui si serve,
e moderno, per il modo in tutto e per tutto contemporaneo tramite cui questi elementi
vengono ricombinati.
Aztec Jazz, di citazioni, è pieno:
dalla copertina, sorprendentemente simile a quella di uno dei tanti dischi free
stampati in Italia durante gli anni '70, agli arrangiamenti impartiti da Mats
Hålling (il quale, comunque, dirige una compagnia di soli ottoni, ovvero senza,
per fortuna, neanche un violino) al Norwegian Wind Ensemble, l'album è tutto un
seguirsi di richiami ai grandi compositori della storia del cinema western, Dimitri
Tiomkin, Elmer Bernstein e Alex North in particolare. Quella inscenata da Russell
in Norvegia, nel maggio dello scorso anno, non è, insomma, una di quelle lagne
zuccherose per archi grazie alle quali il pubblico distratto può inventarsi collegamenti
strampalati con la "nobiltà" della musica classica. Ma neanche, per proseguire
con i paralleli cinematografici, un "montaggio" alternativo di alcuni suoi classici.
Semmai una versione speculare, dalle coreografie sonore più espressioniste, più
amplificate dal punto di vista emotivo, di brani altrimenti già perfettamente
risolti in termini di suono.
Sicché, in molte occasioni, Aztec Jazz diventa
una specie di raccolta di short-stories dal linguaggio accresciuto: Stealing
Electricity, per esempio, si trasforma nel brano portante dello score
di un film-noir immaginario, mentre Guadalupe, Criminology, Goodnight
Juarez e, più di tutte, un'eccezionale Jai
Alai, evocano i fotogrammi di un western ambientato fra Texas e Messico.
A volte, come nel caso dell'asciutta St. Olav's Gate (pur con una intro
in apparenza rubata a un musical di Rodgers & Hammerstein), l'orchestra sembra
non aggiungere quasi nulla all'efficacia dei prototipi; in altri casi, invece,
i brani prendono direzioni del tutto inaspettate, e può persino capitare cha la
malinconica Mississippi River Running Backwards
finisca per assomigliare al coltissimo pop cameristico e imprevedibile di Van
Dyke Parks (nella cartella stampa si parla del Miles Davis di Sketches Of Spain,
ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, delle peculiarità usuranti
di lavori disgraziati come quello dell'oscuro estensore di press-kit).
Il
carisma di Tom Rusell, nelle undici tracce di Aztec Jazz, non viene mai meno,
l'efficienza del Norwegian Wind Ensemble neanche. Resta magari il rammarico
per una certa titubanza, una pur comprensibile ritrosia a stravolgere del tutto
gli originali rovesciandone il senso e stravolgendone le coordinate, anche se
forse sarebbe stato chiedere troppo. Alla fine Aztec Jazz risulta essere, diciamo
così, la colonna sonora di un film sulle canzoni di Tom Russell, non esente da
qualche accenno di autocelebrazione. Nessun problema, né col film, né con la celebrazione:
se li merita entrambi.