Potremmo fare una scommessa e in fondo saprei di giocare sporco, perché in giro
si sono già captate diverse reazioni positive: VII sarà con ogni
probabilità salutato come uno dei dischi più omogenei e coerenti della produzione
dei Blitzen Trapper. Anzi, per certa stampa americana si tratterebbe persino
del loro parto migliore, quello che con presunto coraggio abbatte le barriere
della tradizione da cui partivano, per inventarsi una sorta di Americana dal gusto
"sintetico" e psichedelico, dove The Band e Bob Dylan vanno a braccetto con loop
ritmici, cadenze hip hop e funky, qualche dissertazione da blues futurista alla
Beck. Allora mettiamola onestamente così: ognuno ha le sue idiosincrasie e l'onestà
impone di non fare finta di essere falsamente distaccati. Per questo motivo vi
dirò che VII è una delusione cocente, un pastrocchio pretenzioso e irritante di
suoni, tentativi che forse aiuteranno il gruppo di Portland a trovare qualche
appoggio presso la più illuminata intellighenzia critica, quella che li schifava
in buona parte per gli accenti folk rock e la svolta sudista dell'ottimo American
Goldwing o li trovava persino troppo citazionisti e presuntuosi in
Destroyer of the Void.
Per quel che mi riguarda abbiamo perso una delle
più interessanti voci del classic rock americano di questi anni (ed è la
seconda volta che capita di recentem dopo il caso dei Delta Spirit), "guadagnando"
in cambio una band dai frivoli vagheggiamenti modernisti, lì dove Eric Earley,
esempio raro di autore con un certo piglio narrativo nel mondo dell'indie rock,
si balocca con le movenze di Feel the Chill
e Shine on. Il disco abbonda di intrecci e
groove, tastierine che legano quelle radici blues e quegli accenti sudisti che
fuoriuscivano dal precedente American Goldwing con sortite che Eels e Beck (Odelay
e dintorni, più o meno un caposaldo di questo linguaggio) avevano abbondandemente
esplorato (e meglio, ça va sans dire) quasi vent'anni fa. Così vanno tranquillamente
a farsi benedire le supposte pretese sonore di Valley
of Death, Earth (Fever Called Love), della imbarazzante farsa
black di Neck tatts, Cadillacs o del giochetto
tra r&b e pop di Drive On Up. Sono canzoni
inconsistenti e anche un po' banali se permettete, che di tanto in tanto i Blitzen
Trapper sembrano rinnegare, tradendosi con le loro stesse mani. Capita quando
il country cosmico di Ever Loved Once o l'esplosione
glam rock di Heart Attack affiorano come una
sorta di scarti del precedente album, ricordando le capacità di sintesi e di evocazione
del songwriting di Eric Earley, voce che si adatta a questo stile dove banjo,
chitarre slide e afflato soul rubato a The Band sono il pane quotidiano.
Una
fiammata, che ritorna come un bagliore nel finale di
Don't Be a Stranger, guarda caso il brano più classico (e più bello)
dell'intera raccolta: una svolazzante ballata country rock che ci ricorda ancora
una volta come semplicità, tradizione e melodia non siano parolacce da incalliti
conservatori musicali. Anche perché quando la ricerca sonora dei Blitzen Trapper
trova un suo baricentro, nulla vieta di ammettere la forza delle loro scelte (accade
solo in parte nella straniante divagazione psichedelica di Faces of You):
il problema è che in VII tutta questa voglia di scombinare le carte ha prodotto
solamente un disco inutile. Una riga sopra e pensiamo al prossimo, se sapranno
rinsavirsi.