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garage roots rock di
Fabio Cerbone (13/07/2012)
Ci
sono musicisti che non riescono proprio a stare fermi un giro: la necessità di
trovare più valvole di sfogo alla loro dirompente scrittura li conduce alle più
svariate collaborazioni, a fare e disfare progetti nell'arco di una sola stagione.
John McCauley appartiene di diritto alla categoria, se è vero che non si
è ancora spenta l'eco del supergruppo Middle Brother (di comune accordo con Taylor
Goldsmith dei Dawes e Matthew Vasquez dei Delta Spirit) nonché del suo ultimo
lavoro con la principale band di riferimento (i Deer Tick del controverso, infine
deludente Divine
Providence) che lo ritroviamo gettarsi nella mischia dei Diamond
Rugs, rock'n'roll band da "dopo lavoro" formata, come spesso accade
in queste situazioni, da un fortuito incontro del destino. Galeotto fu uno show
dei Los Lobos, a cui McCauley assistette nella passata stagione: due chiacchiere
nel backstage con Steve Berlin, da sempre musicista molto curioso e aperto
alle nuove generazioni rock, e l'intesa prende corpo, trovando uno spazio per
canzoni rimaste nel cassetto.
A completare la strana alchimia della band
giungono musicisti incrociati sulla strada, da Ian Saint Pé dei Black Lips a Bryan
Dufresne dei Six Finger Satellite e Hardy Morris dei Dead Confederate, fino al
più congeniale Robbie Crowell (anch'egli nei Deer Tick), tutti accumunati evidentemente
dall'appartenere ad un fervido sottobosco di animose rock'n'roll band, pronte
e immettere linfa nel genere. I Diamond Rugs nascono dunque come sintesi delle
loro diverse pulsioni: un linguaggio che appartiene al classicismo rock americano,
ma si sporca di garage blues e lontane risonanze sixties, frullando insieme Rolling
Stones, Flaming Groovies, sghembo rhythm'n'blues cubista alla Tom Waits e ubriacature
alla Replacements. Spianata la sequenza viene quasi l'acquolina in bocca, ma si
tratta piuttosto di suggestioni e naturali ascendenze, perché nel concreto l'omonimo
esordio dei Diamond Rugs resta un divertissment raffazzonato e zoppiccante,
dove i tratti caratteristici del songwriting di McCauley salgono allo scoperto
in tutte le loro debolezze.
Resta insomma un diversivo e nulla più, comprese
le solite invocazioni alcoliche di Gimme a Beer,
l'arruffato caracollare di Hightail, le sfuriate
dai tratti post punk di Big God o gli intrecci
tra garage e rozzo r&b di Tell Me Why, dove
il sax di Berlin guida le danze. Nulla che non faccia pensare tuttavia a dei semplici
scarti dei Deer Tick, magari con l'aggiunta di qualche eccentricità in più dovuta
alla coabitazione con gli altri musicisti: il country sfilacciato in salsa psichedelica
di Country Mile, ad esempio, oppure il Roy
Orbison allucinato di uno scherzetto intitolato Totally
Lonely, e ancora la filastrocca dylaniana un po' sconclusionata di
Blue Mountains. In generale i toni sono svagati,
votati alla pura gioia di eccedere, costantemente sopra le righe: l'effetto è
di prendere i Replacements di Pleased to Meet Me (Call
Girl Blues un rimasuglio di quella stagione) e coniugarli con un profumo
di revival 60s che invade buona parte del repertorio (Out on my Own, I
Took Note), ma giunti alle strazianti note pianistiche del finale Christmas
in a Chinese Restaurant non è rimasto in testa nulla se non una nota a pié
di pagina.