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cosmic folk di
Fabio Cerbone (29/08/2012)
Tutto
raccolto nel suo spleen in bianco e nero, riflesso anche nella copertina
di Cast the Same Old Shadow, Dylan Leblanc cerca tenacemente
il disco della conferma e della maturità, dopo gli applausi ricevuti al primo
colpo sparato, Pauper's
Field, album che lo svelò su Rough Trade soltanto un paio di stagioni
fa. Il figlio di James LeBlanc, pedigree nobile come musicista del leggendario
entourage dei Muscle Shoals, azzarda subito uno scarto considerevole rispetto
al debutto, tratteggiando dieci ballate eteree e malinconiche che fanno delle
sue radici country rock e del suo tenero folk d'autore qualcosa di più impalpabile
e soffuso. Già definito da certa stampa inglese, senza alcun senso della misura,
come "il nuovo Neil Young", il giovane Dylan raccoglie certamente il malessere
tormentato del loner canadese, ma non si avvicina alla costruzione meticolosa
delle canzoni, lasciandole semmai fluttuare, un po' come fossero sensazioni, bozzetti
che esprimono le particolari condizioni emotive nelle quali è stato concepito
l'intero Cast the Same Old Shadow.
Di questo passo tutto svanisce, tra
candide rivelazioni, momenti di estasi Americana e molti, troppi momenti di assoluta
indeterminatezza. Per spegarci meglio converrebbe partire proprio da Part
One: The End, sogno apocalittico messo in musica dallo stesso Leblanc,
che azzarda una melodia struggente e tristanzuola dove archi e timide percussioni
avvolgono il canto accorato del protagonista. È un leit motiv su cui costruire
un po' tutta la struttura del disco, che anche negli intrecci fra pedal steel,
chitarre riverberate e pianoforte, pur richiamando sottilemente le radici folkie
di Dylan Leblanc, preferisce sfilacciare le canzoni: i raddoppi vocali e la purezza
che avvolge Innocent Sinner ricordano la generazione
folk rock dei Fleet Foxes, volenti o nolenti ormai dei capiscuola, mentre Brother
insegue cambi di ritmo e ritrova la strada del country elettrico e settantesco
degli esordi. Il lavoro di studo con Trina Shoemaker è stato senza dubbio
essenziale nel consegnare questi episodi al mondo un poco onirico e abbattuto
che contraddistingue oggi la penna di Leblanc, esaltando i nuovi toni da menestrello
ferito.
Il contrapasso tuttavia è una serie di brani dalla forte drammaticità
(Chesapeake Lane)
o dal placido incedere (il walzer di Where Are You Know,
i docili lamenti per piano e acustica di The Ties that Bind e Lonesome
Waltz) che tendono a rassomigliarsi un po' tutti, annullandosi l'uno
con l'altro in una sorta di sentimento univoco. Di questo passo Leblanc potrebbe
persino ripetere l'exploit toccato nella scorsa stagione a Josh T Pearson: con
una ricetta musicale più ricca ed elegante, le ballate di Cast the Same Old Shadow
sembrano nustrirsi però di una radice comune, la stessa che potrebbe mandare in
solluchero certa critica e pubblico che guarda all'Americana solamente nelle sue
varianti meno "tradizionaliste" e più incupite. Il problema è che a forza di inseguire
un'emozione, una percezione, un'idea al posto di un duro lavoro di songwriting,
le canzoni cominciano ad evaporare (i sei minuti della title track in questo senso
ne sono una prova evidente) senza lasciare traccia.