E' nata una stella? Tutto, nella confortevole e autoindulgente nicchia dell'Americana,
sembra apparecchiato per farcelo credere: la produzione attenta ai dettagli, lontana
dal fai da te cui siamo ormai avvezzi, lo sfoggio di nomi - uno su tutti, quello
di sua maestà Emmylou Harris, che si scomoda a gorgheggiare sullo sfondo
di The Creek Don't Rise - e la benevola attenzione
della critica, anche quella mainstream, per l'esordio di questo ventenne dalla
faccia pulita (immaginate un ibrido tra Townes Van Zandt e James Taylor da giovani).
Se cerco Paupers Field, Google mi restituisce 35 mila risultati:
non male per un disco uscito da un mese scarso. E' giustificato, tale clamore?
L'album è buono, vibra di feeling autunnale, la misura negli arrangiamenti esalta
una scrittura già matura, nonostante la giovane età del suo autore. Non sentiamo
però quello scarto dalla media che ci indurrebbe volentieri a unirci al coro dell'entusiasmo.
Non siamo di fronte al nuovo Ray Lamontagne, per fare il nome (non solo per l'assonanza)
di uno che ha mostrato da subito di essere hors categorie.
Cosa
giustifica quindi l'interesse e gli investimenti della Rough Trade, che ha messo
Dylan LeBlanc sotto contratto appena compiuti 18 anni e l'ha coccolato
e circondato di attenzioni? Cosa ha in più questo ragazzo del 1990 di altri songwriter
di belle speranze? La risposta, un po' maliziosamente, va forse ricercata nel
background del nostro: Dylan è figlio di un noto session man dei Muscle Shoals,
Lenny Leblanc, reo anche di una hit nel 1978 in coppia con Pete Carr (Falling,
smooth soul da FM non proprio memorabile) e questo, va da sé, lo ha introdotto
con disinvoltura nei giri giusti, aiutandolo a trovare chi gli prestasse orecchio
(tra i suoi sponsor anche Spooner Oldham) e ciò, unito a uno stile agrodolce,
a una voce forse ancora acerba ma personale e riconoscibile, al giusto phisique
du role, ne fanno un cavallo su cui puntare. Verrò probabilmente smentito e giustamente
esposto al pubblico dileggio per non avere riconosciuto "il nuovo Ryan Adams",
ma credo che un po' di gavetta in più non gli avrebbe fatto male. Certe confessioni
da uomo vissuto - le liriche disegnano vite spese al buio dei bar, cicatrici indelebili,
fuorilegge e altri tòpoi del repertorio - stonano con la sua età, con quell'aria
fragile che si porta dietro.
Ma più delle chiacchiere vale la musica che,
come detto, è buona: languida e con un retrogusto amarognolo anche nei rari momenti
di brio (si fa per dire: solo Changing of the Seasons
tenta un passo più zompettante, senza per altro scrollarsi di dosso le brume del
paesaggio). Dylan ha evidentemente ascoltato a lungo i dischi di Neil Young (ma
certo più Comes the Time che Ragged Glory). Le tinte sono seppiate, solcate dai
voli di una pedal steel le cui traiettorie seguono la risacca di un organo soulful,
arpeggi di chitarra west coast e quella voce nasale e sapientemente strascicata
che è la cifra dell'album. Alcune canzoni cercano altre strade: Emma
Hartley e 5th Avenue Bar si avvolgono
in un arrangiamento d'archi, mentre Death of Outlaw Billy
John si lascia guidare dal pickin' di un mandolino, una chitarra acustica
e poco altro. Ma alla fine sono soprattutto le melodie lineari ed evocative di
Ain't Too Goodat
Losing e If Time Was for Wasting a
convincere. (Yuri
Susanna)