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power pop di
Yuri Susanna (20/03/2012)
Sono
dieci anni che - come vuole la tradizione criminale - Ben Kweller torna
impunemente, con beffarda volontà di sfida, sul luogo del delitto. Il suo crimine?
Rubare l'anima alla perfetta pop song. Ex-enfant prodige della tarda generazione
grunge (l'esordio a 16 anni con i tanto pubblicizzati quanto fallimentari Radish)
ha continuato periodicamente, da Sha Sha del 2002, a ribadire la sua fede nella
verità rivelata dei quattro accordi, con artigiana umiltà e sincera devozione.
E anche, bisogna dirlo, circondato da una sempre crescente indifferenza. Come
se della semplicità non sapessimo più che farcene, o ne avessimo quasi paura,
in questi tempi di (falsa) complessità e esibita, superficiale profondità. Quindi,
non c'è da stupirsi se i lavori successivi sono stati per lo più liquidati con
un sei politico, e presto dimenticati.
La sua colpa? Quella di essersi
presentato fuori tempo massimo: un decennio prima il suo songbook avrebbe potuto
rivaleggiare con quello di un Matthew Sweet, di un Rivers Cuomo (Weezer), di un
Evan Dando o di un Adam Schlesinger (Fountains of Wayne). Ma le mode transitano,
come la gloria mondana. Anche noi l'abbiamo seguito saltuariamente, più con condiscendenza
che con sincero affetto. Go Fly A Kite arriva al momento buono per
spingerci a riconoscerne, una volta per tutte, i meriti. E' un riassunto dell'arte
di Kweller, in cui l'abituale bravura compositiva va di pari passo con scelte
di arrangiamento che evitano divagazioni ed esperimenti, per concentrarsi sulla
forma basica di quel power-pop che è da sempre la sua arma più affilata. Va bene
circondarsi di oggetti di design e gadget tecnologici ma, se si vuole stare seduti
su qualcosa di solido, è bene rivolgersi a un artigiano che non abbia dimenticato
come si costruiscono sedie. E' questo che fa Kweller: canzoni solide, ben salde
su quattro gambe.
Mean To Me chiarisce
subito l'assunto, dando gas ai fiati e andando a grande velocità a sbattere contro
un refrain perfetto: il seguito prosegue senza sbandate nella stessa direzione,
con una serie di ganci da ko (Jealous Girl,
l'orchestrale The Rainbow), coretti da british
invasion, rifforama a go-go (il glam-rock di Free,
la corsa a rotta di collo di Time Will Save the Day),
deviazioni roots (Full Circle) e qualche calibrato
momento per tirare il fiato (il walzer beatlesiano di Gossip,
la ballatona Miss You). Una lezione di power
pop "for dummies", (nel libretto del CD trovate gli accordi di tutte le canzoni,
nel caso vogliate cimentarvi...) che si chiude con You
Can Count on Me, vivace impennata alt.country che rimanda al precedente
Changing
Horses. Dischi brutti il ragazzo non ne ha mai fatti, e questo è dei
più riusciti (con Sha Sha e l'omonimo del 2006: ma ognuno ha legittimamente le
proprie preferenze). Il merito maggiore di Go Fly A Kite è quello di ricordarci
che con un basso, una chitarra, una batteria, due strofe e un ritornello si possono
ancora inventare modi piacevoli e creativi di godere il tempo. E senza doversi
togliere i vestiti.