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grizzly bear di
Yuri Susanna (05/10/2012)
E'
sempre disagevole "ballare di architettura" con i dischi dei Grizzly Bear.
Proviamo quindi la scorciatoia delle metafore e/o similitudini. Immaginiamo dunque
Yellow House - l'opera seconda, del 2006, quella che ha stampato il nome della
band sulla mappa dell'indiefolk di tendenza - come un disco bucolico, spruzzato
di stille di rugiada e odoroso di terra bagnata, e il successivo Veckatimest
- l'exploit del 2009, quello che ha trasformato gli orsi selvatici in animali
da salotto - come un disco acquatico, fluttuante in un moto di incessante risacca,
imprendibile e seducente: allora Shields può essere salutato come
il disco con cui i Grizzly Bear tornano a terra, ma solo per tentare subito di
librarsi verso il cielo. A tratti riesce anche a suonare "rock", almeno nella
misura in cui può definirsi rock la musica di questi folletti della nuova psichedelia.
L'attenzione alle dinamiche - che aveva giustificato paragoni con i Radiohead
- e le stratificazioni sonore non mancano: anche le nuove canzoni si prestano
a essere pelate come tante cipolle, rivelando sotto ogni buccia una pelle nuova.
Il tutto suona però meno astratto, più ancorato al suolo, come se le visioni astrali
di Edward Droste e Daniel Rossen (che restano i songwriter principali, anche se
il processo creativo è stato più collaborativo del solito) cercassero un contrappeso
nell'apporto di Christopher Bear (il suono della sua batteria non è mai stato
così determinato) e Christopher Taylor (basso, ma anche fiati e orpelli elettronici),
incaricati di tenere la barra dritta mentre le abituali armonie vocali "patafisiche"
- siamo più dalle parti di Canterbury che nella California dei Beach Boys - spingono
le canzoni su su, oltre l'atmosfera. Lo slancio verticale di Sleeping
Ute (prove di volo libero con paracadute), Speak
in Rounds (un giro vorticoso sui dischi volanti di un luna park cosmico)
e Yet Again (traiettorie spiraliformi disegnate
su cieli di ghiaccio), formidabile trittico d'apertura a cui si aggiunge l'intermezzo
di Adelma (segnali di vita aliena dallo spazio profondo), è innegabile
ma allo stesso tempo reso meno etereo da arrangiamenti capaci di una fisica, concreta
solidità.
Dopo Yet Again si torna su coordinate in parte già esplorate
(la fragranza folk di The Hunt riporta alle
atmosfere di Yelllow House, mentre la pulsione di A Simple
Answer presenta affinità con le oscillazioni di Veckatimest), in parte
meno impegnative, più rilassate (la leggerezza di Gun-Shy, il baroque-pop
sfilacciato di What's Wrong). Ma il disco
procede senza cadute di tono, e il finale caleidoscopico di Sun
in Your Eyes è uno dei risultati più strabilianti dell'arte della band.
Non è dato sapere se Shields ripeterà il bottino di consensi del
disco precedente (ma immaginiamo di sì: ha debuttato al 7° posto della Billboard
Chart), certo testimonia il coraggio di non ripetere pari pari una formula che
si era rivelata proficua: guarda avanti, prosegue un discorso che non sembra destinato
a chiudersi a breve, e chissà dove ci porterà. Qualcuno potrà anche definirlo
un disco di transizione, ma siamo pronti a scommettere che per una band come i
Grizzly Bear ogni opera sia un momento di passaggio, la fotografia di uno stato
creativo in continuo movimento. Caratteristiche, queste, che sono proprie di pochi
artisti e, di solito, di quelli che lasciano il segno.