Il grizzly ribalta l'idea dell'orsetto tenero e giocherellone che accompagna
il nostro immaginario fin da bambini. Ne rappresenta il lato oscuro. I
Grizzly Bear sono dolci e ammalianti, con melodie che attraggono
come miele... ma la zampata che ti stordisce è lì in agguato. Ci vuole
impegno ad affrontare con serietà quest'album, anche per chi già frequenta
i labirinti neofreak del pop psichedelico contemporaneo: c'è nelle invenzioni
di questi ragazzi qualcosa che lascia imbambolati. Abbandonata la densità
caotica e ridondante del disco precedente, le loro stratificazioni sonore
ora si sono cristallizzate in vere e ariose pop song senza perdere in
complessità, e il risultato affascina o -quando la bussola dei riferimenti
impazzisce- sbigottisce: ma non ci lascia indifferenti. Forse è l'eredità
del tour con i Radiohead, o forse i due vocalist/songwriter Daniel
Rossen e Ed Drost hanno raggiunto un amalgama creativo più
fecondo.
Fatto sta che dalle settimane (astrali?) di registrazioni per Veckatimest
(nome di un isolotto di fronte a Cape Cod) è uscito qualcosa di nuovo,
di familiare e inaudito insieme, che consente al quartetto di Brooklyn
di superare amici celebrati ben oltre i loro meriti (leggi Animal Collective)
o ancora in cerca di identità (Akron/Family). Qualche esempio? Southern
Point, eterea progressione folk/jazz che riporta alla California
acida del Crosby solista; il singolo Two Weeks,
ovvero i Beach Boys a cui è stata tolta la sabbia da sotto i piedi; le
onde acustiche che si infrangono contro scogli di riverberi in Fine
for Now (ancora echi di Crosby); la tentazione dance di Cheerleader;
la (de)costruzione canterburiana nel nome di Robert Wyatt di Dory;
la sincope elettrica di While I Wait for the
Others, che trova la sua catarsi nel chorus più aperto e liberatorio
dell'album; I Live With You, arazzo
orchestrale in cui si cela un'anima black che sarebbe piaciuta a Tim Buckley.
L'asse portante sono gli incastri armonici, che tengono le canzoni in
equilibrio su terreni sfuggenti: la voce solista non è dove te l'aspetteresti,
doppiata, franta e riflessa dal caleidoscopio delle voci d'accompagnamento,
in un movimento centrifugo che impedisce a quelle che sembrerebbero riletture
di frammenti di psichedelia sixties di essere solo esercizi di calligrafia.
Altrove è il nervosismo quasi dark delle percussioni a disturbare la coscienza
pop della canzone, o il gonfio manto barocco di arrangiamenti orchestrali
che si fermano sulla soglia del kitsch (più Van Dyke Parks che Sigur Ros).
La semplicità gioca ambiguamente con la complessità, in un'alternanza
di pieni che non sono poi così pieni e di vuoti che non sono mai realmente
vuoti. Perché la magia sia definitiva manca forse il senso d'abbandono
totale: qua e là la ricerca dello scarto imprevisto e non richiesto disturba
ancora il godimento d'insieme. Ma è il prezzo da pagare alla voglia di
perfezione. Armonie per spiagge desolate, colonna sonora di droghe ancora
da inventare, cocktail di cui riconosci gli ingredienti sulla lingua,
ma che non hai mai sentito mescolati in questo modo… Che cavolo ho scritto?
Boh, chi se ne frega. Barman! Un altro giro, grazie. (Yuri Susanna)