inserito 21/09/2009

Grizzly Bear
Veckatimest
[
Warp Records 2009
]



Il grizzly ribalta l'idea dell'orsetto tenero e giocherellone che accompagna il nostro immaginario fin da bambini. Ne rappresenta il lato oscuro. I Grizzly Bear sono dolci e ammalianti, con melodie che attraggono come miele... ma la zampata che ti stordisce è lì in agguato. Ci vuole impegno ad affrontare con serietà quest'album, anche per chi già frequenta i labirinti neofreak del pop psichedelico contemporaneo: c'è nelle invenzioni di questi ragazzi qualcosa che lascia imbambolati. Abbandonata la densità caotica e ridondante del disco precedente, le loro stratificazioni sonore ora si sono cristallizzate in vere e ariose pop song senza perdere in complessità, e il risultato affascina o -quando la bussola dei riferimenti impazzisce- sbigottisce: ma non ci lascia indifferenti. Forse è l'eredità del tour con i Radiohead, o forse i due vocalist/songwriter Daniel Rossen e Ed Drost hanno raggiunto un amalgama creativo più fecondo.

Fatto sta che dalle settimane (astrali?) di registrazioni per Veckatimest (nome di un isolotto di fronte a Cape Cod) è uscito qualcosa di nuovo, di familiare e inaudito insieme, che consente al quartetto di Brooklyn di superare amici celebrati ben oltre i loro meriti (leggi Animal Collective) o ancora in cerca di identità (Akron/Family). Qualche esempio? Southern Point, eterea progressione folk/jazz che riporta alla California acida del Crosby solista; il singolo Two Weeks, ovvero i Beach Boys a cui è stata tolta la sabbia da sotto i piedi; le onde acustiche che si infrangono contro scogli di riverberi in Fine for Now (ancora echi di Crosby); la tentazione dance di Cheerleader; la (de)costruzione canterburiana nel nome di Robert Wyatt di Dory; la sincope elettrica di While I Wait for the Others, che trova la sua catarsi nel chorus più aperto e liberatorio dell'album; I Live With You, arazzo orchestrale in cui si cela un'anima black che sarebbe piaciuta a Tim Buckley.

L'asse portante sono gli incastri armonici, che tengono le canzoni in equilibrio su terreni sfuggenti: la voce solista non è dove te l'aspetteresti, doppiata, franta e riflessa dal caleidoscopio delle voci d'accompagnamento, in un movimento centrifugo che impedisce a quelle che sembrerebbero riletture di frammenti di psichedelia sixties di essere solo esercizi di calligrafia. Altrove è il nervosismo quasi dark delle percussioni a disturbare la coscienza pop della canzone, o il gonfio manto barocco di arrangiamenti orchestrali che si fermano sulla soglia del kitsch (più Van Dyke Parks che Sigur Ros). La semplicità gioca ambiguamente con la complessità, in un'alternanza di pieni che non sono poi così pieni e di vuoti che non sono mai realmente vuoti. Perché la magia sia definitiva manca forse il senso d'abbandono totale: qua e là la ricerca dello scarto imprevisto e non richiesto disturba ancora il godimento d'insieme. Ma è il prezzo da pagare alla voglia di perfezione. Armonie per spiagge desolate, colonna sonora di droghe ancora da inventare, cocktail di cui riconosci gli ingredienti sulla lingua, ma che non hai mai sentito mescolati in questo modo… Che cavolo ho scritto? Boh, chi se ne frega. Barman! Un altro giro, grazie.
(Yuri Susanna)

www.grizzly-bear.net
www.warp.net



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