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indie rock di
Fabio Cerbone (16/02/2012)
Prototipo in un certo senso perfetto di quella estetica indie rock che si affaccia
sulla tradizione, i Dr.Dog sono passati in pochi anni dalla tenace "bassa
fedeltà" degli esordi all'amore incondizionato per tutto ciò che profumasse di
rock anni Settanta. Non a caso i nomi ripetutamente menzionati, più o meno a sproposito,
per imbrigliare la loro formula sonora sono stati Beach Boys, The Band, Neil Young,
come dire da una parte l'immaginario sognante e psichedelico della pop music,
dall'altra la concretezza delle radici. Termine di questo viaggio, o se vogliamo
coda finale di una lenta maturazione era stato il disco Fate
del 2008. Con l'entrata in casa Anti però le cose si sono fatte decisamente più
ambiziose, tanto è vero che il precedente Shame Shame, per la prima volta condiviso
con una produzione esterna (il Rob Schnapf per lungo tempo al fianco di Elliott
Smith) aveva allargato a dismisura le mire da grandeur pop del gruppo,
risultando stucchevole e confuso sulla distanza.
Non sorprende dunque
che la band di Philadelphia ribadisca oggi le intenzioni di ritornare alla maggiore
consistenza del passato, seppure la parola sobrietà, nel caso del loro rock'n'roll
variopinto e schizzato, non si addica proprio. Fatto sta che Be the Void
è un disco più "suonato", elettrico, diretto nell'aproccio, una creazione casalinga
che ha richiesto tempi più concisi e tracciato una direzione immediata. Ne guadagnano
le canzoni, l'appeal generale e l'uniformità di un lavoro che resta comunque figlio
di un certo suono indie pop, allevato ed educato grazie ai maestri Flaming Lips
e che tuttavia nel tempo ha cercato di "ammorbidirsi" nel solco della memoria
folk. Per tale motivo, forse, gli intrecci delle composizioni di Scott McMicken
e Toby Leaman, con l'intervento non indifferente delle tastiere di Zach Miller,
non possono fare a meno di rammentare, come già accaduto altre volte, i
My Morning Jacket: coglietene la stessa pasta, anche vocale, in How
Long Must I Wait?, Do the Trick
e Heavy Light, quelle vibrazioni sospese fra
soul psichedelico e chitarre dall'educazione garage rock.
L'accusa di
derivazione sarà sempre in agguato, ma questa volta pare che i Dr. Dog ci abbiamo
aggiunto una punta di spontaneità che gioca tutta a loro favore: merito forse
degli innesti ritmici del nuovo arrivato Dimitri Manos, che in That
Old Black Hole pare rinnovare lo stile del gruppo, mentre Lonesome
sfodera persino una corale ballata dalle ambientazioni sudiste e infine These
Days e Over Here, Over There si
lasciano trascinare da un rock'n'roll vivace e dall'impronta sixties. Ecco, il
peccato maggiore per i detrattori dei Dr. Dog resterà sempre questa sensazione
di passatismo, che qualcuno ha già fatto notare: difficile dargli torto quando
nel finale Warrior Man e Turning
the Century, da versanti sonori diversi, si impiastrano con le visioni
e le utopie di un tempo perduto