Ve ne sarete di certo accorti, e del resto non è
un segreto: ci piacciono i Parquet Courts. Può sembrare strano,
su un sito come il nostro, che guarda soprattutto all’America rurale e
agli orizzonti segnati dalle strade blu, questo invaghimento per un terzetto
avant-punk dell’underground newyorchese. Però, se intendiamo il termine
“radici” in un’accezione ampia e articolata, diventa difficile ignorare
l’appartenenza dei Parquet Courts a una genìa musicale che ci riporta
indietro fino alle origini di quella forma che ha modellato l’idea stessa
di rock urbano: un fil rouge che dalla Factory di Warhol passa per il
CBGB’S, si ingarbuglia intorno alle danze terzomondiste dei Talking Heads
e arriva fino ai Sonic Youth. Nel nuovo millennio nessuno meglio di questi
quattro (ex)ragazzi di Brooklyn ha saputo riprendere in mano il capo di
questo filo e sbrogliarlo in un discorso sonoro che ha aggiunto altri
ingredienti senza perdere efficacia né credibilità.
Tre anni fa ci burlavamo delle dichiarazioni che avevano accompagnato
l’uscita del penultimo Wide
Awake, considerando una boutade la definizione di album “dance”
che ne era stata data. Era solo questione di tempo: quest’ultimo
Sympathy for Life osa quello che il precedente lasciava solo intendere.
Le undici nuove tracce nascono da lunghe jam sessions alle quali in studio
si è tentato di dare una forma-canzone, con l’ausilio della produzione
esperta di John Parrish e Rodaidh McDonald (Vampire Weekend, David Byrne
ma anche Adele…): tentativo per lo più riuscito, pur se restano tracce
della natura libera e ossessiva da cui i brani hanno avuto origine, soprattutto
a livello ritmico. L’intento stavolta è davvero quello di far ballare:
siano le cadenze krautrock di Application/ Apparatus
o la poliritmia figlia degli anni Ottanta di Marathon of Anger
e Plant Life (che sembrano uscire dirette da Remain in Light)
o, ancora, le reminiscenze della psichedelica da club culture cui avevano
aperto le porte i Primal Scream giusto trent’anni fa (il chorus sguaiato
di quella Walking at a Downtown Pace che
apre, letteralmente, le danze), o il desiderio di inseguire Nile Rodgers
lungo le strade della disco funk (la title track), a questo giro le canzoni
invitano a muovere le gambe senza tante remore.
Questo non significa che il gruppo rinunci alle consuete deviazioni anarchiche
che rendono la musica più interessante della somma delle sue influenze,
vedi il valzer destrutturato di Just Shadows,
il pogo pereubiano di Homo Sapien o la struttura da ballata sghemba
e ubriaca (alla ricerca forse dell’effetto chill-out?) dell’ultimo brano,
quel Pulcinella che tradisce nel titolo il fatto di essere stato
composto da Andrew Savage durante una vacanza “acida” in Italia. Sympathy
for Life non è probabilmente l’album da cui iniziare, se non siete
ancora entrati nell’universo sonoro dei Parquet Courts, ma è quello più
genuinamente e totalmente divertente da ascoltare. Provate a suonarlo
ad alto volume a una festa dei vostri figli adolescenti e poi raccontateci
l’effetto che fa.