A sentirli così, eleganti, un po’ notturni, una
musica, la loro, ricca di dettagli narrativi, di allusioni jazzy e ricercatezze
melodiche, quasi non si crederebbe ai trascorsi dei Mountain Goats,
campioni a inizio carriera di un folk bislacco e zoppicante, di ballate
indie rock immerse nell’estetica sonora della bassa fedeltà. La trasformazione
della band guidata da John Darnielle, vero deux ex machina del progetto,
è in atto da diversi anni, certamente da quando c’è stato un primo passaggio
attraverso le cure del prestigioso marchio 4AD e ancor più con l’accasamento
presso la Merge records. Fino al traguardo di questo Dark in Here,
terzo lavoro nell’arco di due stagioni (nel mezzo l’esperimento di Songs
for Pierre Chauvin), che oltre a confermare la prolificità innata
di Darnielle (una discografia ridondante e confusa la sua, come si conviene
alla sua storia di songwirter indipendente), mette in chiaro i legami
strettissimi con il precedente Getting
Into Knives, quest’ultimo già lodato come punto di arrivo della
loro maturazione artistica.
Se allora il luogo dell’ispirazione era stato lo storico studio di Sam
Phillips a Memphis, oggi i riflettori si spostano ai leggendari Fame di
Muscle Shoals in Alabama. Come dire l’intera fetta di storia dell’american
music passata per il sud, anche se The Mountain Goats ne assorbono solo
alcune fantasie e forse un certo tono nella scrittura, essendo la loro
musica ben poco sanguigna e “sudista”. Assestato nella formula del quartetto
con Peter Hughes, Matt Douglas e Jon Wurster ad affiancare il leader,
il gruppo californiano apre spazi sonori, amplia la già levigata struttura
del predecessore, lasciando fluire il taglio narrativo e un po’ impressionista
con il quale Darnielle descrive la vita e le sensazioni. D’altronde, essendo
anche un apprezzato romanziere, è inevitabile che si lasci guidare da
una vena musicale e narrativa che arriva alle descrizioni di The Destruction
of the Kola Superdeep Borehole Tower, nervoso folk rock tra i più
elettrici della raccolta, The Slow Parts on Death
Metal Albums, carezza tra soul e pop d’autore e che nulla sembra
evocare della brutalità della musica a cui fa riferimento, e ancora Arguing
With the Ghost of Peter Laughner About His Coney Island Baby Review,
titolo nostalgicamente irresistibile che si accompagna a una cullante
folk song dall’animo intimamente acustico.
Colpiscono i titoli e la loro curiosa immaginazione, ma la musica non
è da meno: c’è una signorilità negli arrangiamenti che non scade mai nella
svenevolezza, Darnielle canta con un registro limitato eppure con il giusto
disincanto, mentre il manto musicale generato da pianoforte, organo, fiati
(sax, clarinetto, anche un flauto nel finale di Let Me Bathe in Demonic
Light) chitarre e seconde voci insegue piccole epifanie, alcune da
mestrieranti (il tenero dondolio folk rock di Mobile, la tessitura
più mossa di The New Hydra Collection), altre abbandonate alle
profondità più scure del loro sound (la stessa Dark in here), quando
non rapite da una densa e raffinata pastosità jazz, nella ritmica e nelle
maglie della strumentazione: da qui spuntano la strepitosa Lizard
Suit, con la sua fuga "free" nel finale e la più
ammantata armonia di When a Powerful Animal Comes.
Ancora un disco notevole, la cui bellezza speriamo non sfugga nel frastuono
contemporaneo.