John Darnielle, da venticinque anni unico intestatario
del progetto Mountain Goats, è un piccolo genio che da sempre vive
sottotraccia, troppo schivo ed intelligente per concentrare i propri sforzi
verso irrituali meccanismi di facilitazione intellettuale. Ne eravamo
quasi certi al tempo dei suoi esordi discografici, quando avevamo imparato
a destreggiarci tra costruzioni letterarie intriganti e tra l’essenzialità
di un rock-folk molto intrigante, a volte sovra-strutturato, a volte disincentivato
dalla posa in opera di un low-fi domestico e strapovero, ne siamo sicuri
più che mai adesso dopo aver assistito allo sviluppo di una carriera brillantemente
anarchica ma anche assiduamente fedele ad un pensiero coerente, profondo
e vitale.
Getting Into Knives, lo diciamo senza enfasi e senza paura,
è un gioiello, l’ennesimo. Cancella di schianto gli ultimi due, comunque
degnissimi, episodi, quel In League With Dragons (2019) che indugiava
su toni epici e immaginifici e quel Songs for Pierre Chuvin (aprile
2020) che invece riproponeva l’omogeneità impressionista dei bozzetti
sporchi e minimali dell’antica boombox a bobine, romantico appiglio ai
fasti di una civiltà analogica destinata purtroppo al declino. Per arrivare
a questo album, che trascina nuovamente la rutilante narrazione folk dei
Mountain Goats in un raffinato ambito modernista, John ribalta approcci,
strategie ed umori. Conferma la collaborazione con Peter Hughes (basso),
Matt Douglas (chitarre e tastiere) e Jon Wurster (batteria), aggiunge
al team Charles Hodges, storico organista di Al Green e trasferisce tutti
da Nashville al Sam Phillips Recording di Memphis, un posto dove aleggia
lo spirito guida di Elvis e volteggiano i fantasmi di Johnny Cash e di
Roy Orbison. Mette da parte ogni vecchia suggestione, punta ancora più
deciso sulla fedeltà e la ricchezza dei suoni, sulla linearità e pulizia
delle idee e smantella le tematiche più bizzarre, alternando passaggi
esistenzialisti ed immagini poetiche, legate all’immanenza della fine,
a visioni fredde ed estemporanee.
Tutto suona molto accogliente, sapientemente levigato perchè è così deve
essere. Ognuno dei tredici brani di questo disco è destinato a luccicare,
a dipanarsi all’interno di una produzione, affidata a Matt Ross-Spang,
che ha scientemente deciso di maneggiare l’impianto rootsy mettendo al
bando ruggine e spigoli. Il gioco è molto vario e regge benissimo sin
da subito. C’è il rockabilly in salsa post-punk di Corsican
Mastiff Stride, il funky di Get Famous, Picture of
My Dress che riesuma il sound dei Mojave Tree e As Man Candles
As Possible che ripete la formula prog-rock dai toni epici da sempre
in uso alla band. C’è persino il drum & bass di Tidal Wave, a cui
segue il delizioso acquerello folk di Pez Dorado
e The Last Place I Saw You Alive, prova d’autore dall’ordito
jazz. Per arrivare alla romantica effervescenza di
Bell Swamp Collection e di Wolf Count, al rock un po’
alla Cracker di Rat Queen, alle raffinatezze stilistiche di Harbour
Me e, infine, alla title track, altro adorabile capitolo new folk
che ci lascia appesi al vellutato luccichio dell’organo di Al Green.
È vero, la rustica imperfezione dei nastri, del “faidate” dei primi lavori,
aveva ed ha tutt’oggi un suo fascino speciale ma il cambio di prospettiva
che può offrire la tecnologia in mano a chi sa cosa farsene, riesce a
produrre un’esperienza che sa riempire cuore e mente e che, nel nostro
caso, meglio consente a questi brani di sprigionare la loro forza purificatrice,
indirizzando verso la superficie tutti coloro che, secondo John, si sono
fatti sommergere dalle acque e che rischiano di affogare sotto l’inevitabile
peso della perdita e, adesso più che mai, della paura di un futuro negato.