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di Nicola Gervasini (06/03/2019)
Esiste un tocco tutto australiano
nel maneggiare il rock e il pop tradizionale, magari impercettibile per
il grande pubblico che pensa che i Bee Gees potevano tranquillamente essere
scambiati per una pop-band britannica, gli Ac/Dc per una rock and roll
band dei bassifondi di Londra, e magari Nick Cave come uno dei prodotti
del punk newyorkese degli anni settanta. Ma l’Aussie Rock da sempre vive
sull’idea che il rock è una cosa sporca, e non solo per la sciamannata
rockstar-way-of-life spesso adottata dai suoi protagonisti, ma
anche per il tipico dirty-sound che le chitarre hanno in quelle “land
down under”. Un sudore intriso di sabbia cola da sempre nei solchi di
tanti dischi di quella terra, evidente sia quando la musica è volutamente
rauca e figlia della cultura del garage-rock come poteva essere quella
degli Hoodoo Gurus, ma persino nelle sue espressioni più commerciabili
come i Midnight Oil.
In questo scenario si muove da anni Robert Forster, uno che negli
anni 80 con i Go-Betweens ha forse perso qualche treno importante per
raggiungere il successo con una formazione in grado di scrivere indie-pop-songs
dal mai sfruttato potenziale commerciale. Chiusa la storia della band
proprio quando l’album 16 Lovers Lane li portava finalmente nelle
classifiche inglesi (a causa anche della fine della relazione con la batterista
Lindy Morrison), Forster ha faticato non poco a trovare la propria dimensione,
prima con una carriera solista negli anni 90 che non riuscì farlo uscire
dal mondo indipendente, poi con una reunion dei Go-Betweens interrotta
proprio sul più bello dalla morte del compare Grant McLennan. Era il 2006,
e da allora con soli due ottimi album (The
Evangelist del 2008 e Songs to Play del 2015), Forster è riuscito
nella grande impresa non solo di non farsi dimenticare, ma addirittura
di farsi attendere con una certa trepidazione dal mondo di appassionati
che lo stanno riscoprendo.
Inferno, terzo capitolo di questa rinascita, non mancherà di confermarlo
come un personaggio di punta del rock indipendente, perché è il disco
oscuro e caparbiamente sporco che ancora ci aspettiamo da un cult-artist
della terra dei canguri. Forster ha registrato l’album a Brisbane durante
giornate di caldo infernale, da qui il titolo sia del disco, sia della
canzone Inferno (Brisbane In Summer)
che funge anche da singolo, grazie al suo baldanzoso incedere alla Blur,
ma ha fatto poi rimixare tutto nello studiato grigiore di Berlino da Victor
Van Vugt. Nove canzoni in 35 minuti, caratterizzate da un sound elettro-acustico
dove è il violino di Karin Bäumler a fare da elemento disturbatore. Robert
trova il tempo per profonde riflessioni al pianoforte (One Bird In
The Sky), parafrasi dei testi di W. B. Yeats (Crazy
Jane On The Day Of Judgement), dichiarazioni di indipendenza
artistica (I don’t Need No Fame canta nel secondo brano) o di beata
solitudine (The Morning), fino a punti della situazione esistenziali
(Life Has Turn The Page). Non mancano nemmeno quei suoi pop stralunati
alla Robyn Hitchcock (Remain) o alla
John Cale (I’ll Look After You).
Inferno è il piccolo gioiellino che facciamo bene ad aspettare con trepidazione,
perché è un trattato di quella fine arte di scrivere canzoni all’australiana
che non ci stancherà mai.