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jazz prog rock jam di
Fabio Cerbone (20/11/2018)
Aveva
aperto la strada Ryan Adams, con la strampalata idea di rifare da capo a coda
il lussureggiante pop di Taylor Swift di 1989, album che più mainstream
non si poteva immaginare. Tuttavia, che Ryley Walker,musicista
certamente più avanguardista e cerebrale di Adams, potesse affrontare di petto
le canzoni di Dave Matthews, era francamente imprevedibile, soprattutto a pochi
mesi dall'uscita di Deafman
Glance. Devono essersi allarmati anche negli uffici della Dead Oceans,
se è vero che leggendo le note di presentazione del qui presente The Lillywhite
Sessions, a volte viene proprio spontaneo allargare un sorriso per quanto
ci si arrampichi sugli specchi nel tantativo di giustificare un'operazione simile,
senza dubbio invisa e spiazzante per il pubblico "alternativo" a cui solitamente
l'etichetta si rivolge.
Molto più prosaicamente Ryley Walker è un musicista
che ama svicolare, anche troppo, disorientando i suoi estimatori: partito con
l'aura immacolata di chitarrista acustico, trasformatosi in cantore del folk elettrico
più celestiale e psichedelico, quindi approdato alla sperimentazione jazz rock
con code improvvisate di progressive, la sua carriera si è svolta sin qui dando
libero sfogo alle jam strumentali nate attorno alla comunità di musicisti della
scena indie rock di Chicago. Messa così, l'iniziativa di The Lillywhite Sessions
è meno singolare di quanto si possa pensare: destrutturando i brani di partenza,
facendoli a volte letteralmente a pezzi, e citando espressamente nelle interviste
Jim O'rourke e Akron Family come punti di riferimento, il gioco di Walker è presto
svelato. The Lillywhite Sessions assume così la forma di un rock d'avanguardia
e settantesco, dove le trame jazz progressive (Grey Street), i rintocchi
post rock, la creatività magmatica (sentiteli in Kit
Kat Jam) del trio composto con Ryan Jewell (batteria) e Andrew Scott
Young (basso), allargato poi alle presenze di sax, organo e vibrafono, si avventurano
in momenti di pura libertà sonora, attraverso i dieci minuti abbondanti a testa
di JTR e Bartender,
oppure nello strumentale Sweet Up And Down, prima di approdare alla pura
cacofonia free di Monkey Man.
Certo, quello che continuerà a incuriosire
tutti sarà il legame fra Walker e la Dave Matthews Band, due poli in apparenza
inconciliabili: Ryley ha spiegato l'arcano con sincerità, dicendo che il progetto
è nato quasi per scherzo, diventando poi un'ossessione. Deriva dalla sua adolescenza
nella periferia americana e dall'affetto genuino provato per il fenomeno delle
jam band, per quel suono che identifica un pezzo importante degli anni Novanta,
incarnato dal successo della Dave Matthews Band e del suo leader in particolare.
La scelta però è ricaduta su nastri dimenticati, The Lillywhite Sessions
per l'appunto, canzoni incise tra il 1999 e il 2000 con il produttore storico
Steve Lillywhite e mai pubblicate ufficialmente da Matthews, che le avrebbe poi
recuperate e riviste negli album successivi.
Queste ultime raccontano
di un periodo tormentato per Dave Matthews, della sua dipendenza dall'alcol e
dell'idea di volersi separare dalla grande popolarità ottenuta. Forse per questo
motivo hanno affascinato anche Ryley Walker, perché, si sa, i dischi naufragati
diventano spesso un culto. E allora via a far risorgere sotto una veste inedita
Busted Stuff, Raven, e una Diggin'
A Ditch che pare in fregola da punk rock alla Dinosaur Jr. Tutto intrigante,
soprattutto per l'intreccio artistico che vi sta dietro, ma fino ad un certo punto,
perché The Lillywhite Sessions suonerà pure Ryley Walker al massimo grado,
ma qualche volta sfiora il limite del pretenzioso.