File Under:
progressive folk di
Fabio Cerbone (18/05/2018)
Non poteva che ripartire da un'altra prospettiva l'avventuroso viaggio di Ryley
Walker, voce talentuosa del rinnovato folk psichedelico di queste stagioni.
Lo afferma egli stesso nel presentare Deafman Glance, quando descrive
queste canzoni come "imprecise", abbandonate verso qualcosa di più indefinito,
con una forte componente sperimentale che emerge lungo il percorso. Ciò sembra
distanziarle dall'obiettivo che aveva progredito fino all'affascinante Golden
sings that Have Been Sung, ma al tempo stesso ne chiarisce e amplia
il linguaggio. Dietro si cela una consapevolezza che è maturata dal vivo, dove
Walker evidenziava l'inclinazione per un suono più elettrico e magmatico, una
ricerca quasi spasmodica di spostare quella dimensione folk con la quale era stato
identificato agli esordi, una decostruzione che, come sostiene lui, rompesse le
strutture più rigide del passato.
Non sono scomparsi del tutto dall'orizzonte
i fantasmi di Tim Buckely o John Martyn, nomi a cui spesso si è fatto riferimento
per inquadrare l'opera del chitarrista e autore di Chicago, ma proprio l'ambiente
musicale della città e le nuove collaborazioni hanno spinto Deafman Glance nella
direzione di un post rock progressivo e imbevuto di evasioni jazz, con la complicità
del produttore LeRoy Bach (già Wilco) e l'ordito di chitarre creato
insieme a Brian J Sulpizio and Bill Mackay. L'esito si svela strada facendo, dall'introduzione
più placida con In Castle Dome, elettricità
contenuta, circolare e morbida, passando per le eccitazioni da suite jazz prog
di 22 Days, dove una lunga intro strumentale
rallenta poi in una forma di ballata più ordinata per riprendere quota nel finale,
con squarci strumentali aggressivi. È il leit motiv di buona parte dell'album,
inciso soprattutto a Chicago con una base ritmica allargata a più voci (i bassisti
Andrew Scott Young e Matt Lux, i percussionisti Mikel Avery e Quin Kirchner),
cercando di liberare arrangiamenti e immaginazione, ma perdendo una fetta importante
dell'armonia folkie dei lavori precedenti.
Ryley Walker sacrifica coscientemente
una porzione dell'anima acustica e forse scalda meno il cuore dell'ascoltatore,
per trovare adesso un punto di rottura, che si espande nella deriva tra progressive
e rumorismi di Accommodations, con un'ombra
dei King Crimson sulle spalle, si dilata nell'espressione folk rock eterea di
Can't Ask Why, prima di librare una chitarra dagli accenti bellicosi. La
presenza di flauto e sax (Nate Lepine) conferma questa tensione verso la stagione
progressive inglese, un suono settantesco fra le righe che risale la china nella
sfuggente Telluride Speed, naturalmente colorata
di psichedelia nella languida trama di chitarre e tastiere di Expired e
persino influenzata da qualche intonazione alla Wilco in Opposite Middle.
Per ritrovare una familiarità con il passato occorre attendere la coda finale,
un'improvvisa ricomparsa del picking acustico dell'amato Bert Jansch che ammanta
di brit-folk Rocks On Rainbow, acquisendo quindi un tono più elettrico,
eppure melodico, in Spoil With The Rest, forse
l'episodio più lineare nel suo impasto di chitarre dalle sfumature jingle jangle
e tenue psichedelia.
Disco scontroso e celebrale a tratti, intricato anche
nell'espressione delle liriche, e tuttavia che non cancella le doti di un musicista
fra i più interessanti dell'ultima generazione americana.