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indie folk maestro di
Fabio Cerbone (30/08/2017)
È
un ritorno a casa, sotto molti punti di vista, e non solo strettamente musicali,
il sesto lavoro di Sean Beam, in arte Iron & Wine. Innanzi tutto il
sodalizio discografico con la Sub Pop si rinnova dopo qualche anno di allontanamento,
che lo aveva condotto verso i lidi dorati di una major come la Warner, quindi
i contenuti sonori e gli arrangiamenti stessi di Beast Epic giocano
con la memoria, ammiccando alle trame acustiche e folkie che avevano rivelato
l'autore nel decennio scorso, quando gli esordi echeggiavano ballate a bassa fedeltà
imbevute di nobile tradizione americana.
Nel frattempo il viaggio di Iron
& Wine si era fatto avventuroso e imprevedibile, affascinato dal pop e da ritmi
più moderni, persino dalle tessiture di certa black music, che aveva preso il
sopravvento in dischi affascinanti come Kiss
Each Other Clean e Ghost
on Ghost. Nel mezzo un lavoro di cover, un po' interlocutorio o forse
soltanto un divertissment per ritrovare ispirazione, quel Sing into My Mouth firmato
in coppia con l'amico di vecchia data Ben Bridwell (Band of Horses). Il riassunto
è doveroso per capire come Beast Epic non sia un nostalgico rifugio nel passato,
perché l'esperienza ha reso più matura e forbita la musica di Beam, oggi maestro
di un folk rock cristallino e melodioso, molto ricercato nella fattura, che certo
non può essere paragonato al gesto naif del debutto. Lo si percepisce forte e
chiaro nel trittico iniziale, manifesto musicale di un disco senza uno spigolo:
il dolce cullare di Clam Your Ghost, le percussioni
e la vaga eco western di Thomas County Law,
la luminosa armonia di Bitter Truth e il suo gentile impasto vocale, in
contrasto con il titolo stesso.
Mestiere ma anche tanta bellezza sostengono
Beast Epic, album che l'autore in prima persona definisce l'ennesima riflessione
sulla ciclicità del tempo, sul rito del passaggio delle stagioni e la loro influenza
sul corpo e la vita. Vita che oggi per Iron & Wine è forse dominata dall'età adulta,
dalla famiglia, da ciò che lui definisce la bellezza e il dolore di dover crescere
anche quando si è già cresciuti. Saggio il nostro Sean Beam, ma per fortuna non
ancora annoiato da regalarci canzoni inutili o imbellettate. C'è un rischio che
trapela di tanto in tanto dentro Beast Epic, senza però inficiarne la superficie
così brillante. Il lavoro con il piano di Rob Burger e i controcanti di Jim Becker
alle chitarre, banjo, violino e mandolino garantiscono colori e classe sopraffina
alla natura acustica di queste canzoni, che appaiono semplici e scarne anche quando
non lo sono affatto (Song in Stone, Summer Clouds, il trasparente
intreccio, con un lontano sapore west coast, di Call
It Dreaming).
È pur vero che conterrà meno sorprese e curve
pericolose dei suoi lavori più celebrati (giusto le eccentricità ritmiche di Last
Night), in particolare nell'equilibrio raggiunto qualche anno fa con The Sheperd's
Dog, ma l'intesa con Tom Schick presso il famoso the Loft di Chicago (chiedere
ai Wilco) ha reso ancora frutti incantevoli.