Real Estate
In Mind
[
Domino/ Self
2017]

realestatetheband.com

File Under: natura morta con Rickenbacker

di Yuri Susanna (22/06/2017)

Tra il fortunato (a livello indie, almeno) Atlas e questo quarto sofferto album, i Real Estate sono andati incontro a più di un incidente di percorso che ha rischiato di interromperne prematuramente il tragitto. Il terremoto provocato dall'abbandono del chitarrista e membro fondatore Matt Mondanile poteva sortire molte più rovine di quanto in realtà è poi accaduto, e sicuramente lasciava aperte diverse questioni sulla possibile evoluzione del sound della band. Le trame chitarristiche di ascendenza eighties (immaginate dei Feelies con la ritmica al valium o dei Felt americanizzati) che rendevano in qualche modo il quintetto del New Jersey un unicum nell'orizzonte indie contemporaneo ed erano complemento ideale alle placide vignette suburbane del leader Martin Courtney sono, nonostante tutto, ancora lì. Merito di Julian Lynch, chiamato a sostituire il dipartito Mondanile e capace di ricalcarne con sobrio understatement lo stile, tanto da farci sembrare la transizione verso questo In Mind indolore e naturale. Al massimo, il nuovo arrivato azzarda un feedback (Serve the Song) o introduce qualche assolo acido (il disarticolato finale di Two Arrows) ma senza darlo troppo a vedere. Sono ancora lì anche quelle tastierine che sputano spruzzi new wave sulla trama caracollante delle canzoni (Darling).

Del resto, i Real Estate non sono certo la band da cui ti aspetti un cambio di rotta, l'effetto sorpresa o la reinvenzione di sé ad ogni disco. Hanno senso di esistere solo dentro quel perimetro di jangle pop in tono minore che loro stessi hanno tracciato con precisione fin dall'esordio, e lì dentro non possono che continuare a muoversi. Sorprende però la facilità con cui hanno saputo ricalibrare pesi e misure e regalarci altri 44 minuti di ballad ammalianti (After the Moon su tutte), piccole ragnatele di arpeggi elettrici in punta di polpastrello che titillano le orecchie con modesta malinconia, dipingendo immaginari graffiti color pastello sui muri di un quartiere dai giardini rasati, i giornali buttati davanti al patio, il barbeque della domenica. C'è una calma risoluta nella voce di Courtney, in cui intravediamo riflessa una vita illuminata di luce soffusa, spesa in pochi metri quadri di "quieta disperazione" (H.D. Thoreau docet).

Approfondendo si scopre poi che il disco sono andati a registrarlo fino in California (Los Angeles, e per di più nel pieno dell'estate), ma oltre agli strumenti devono essersi portati dietro una valigia di creme solari a protezione 50, perché non si respira molta aria di West Coast tra le pieghe dei brani (parziali eccezioni, la byrdsiana White Light e la pigra melodia quasi country-rock di Diamond Eyes), anzi il tono è quello di sempre: crepuscolare, illanguidito, timidamente sofferto e asfittico anche nelle armonie vocali (Stained Glass). Come se, pur davanti al barbaglio delle onde del Pacifico, Courtney e soci abbiano continuato a sentire nelle ossa la brezza gelida della costa orientale a fine stagione. Dopo quattro album di indiscutibile personalità, è forse il momento di riconoscere la grandezza (in punta di piedi) di questa band: tra i più credibili cantori loro malgrado di una generazione - chiamateli Millennials, se proprio non potete fare a meno dell'abbonamento a Wired - che nemmeno lo sa, di avere bisogno di essere cantata.


    


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