Da qualche giorno ho in testa i Felt, quasi un'ossessione. Forse non tutti ve
li ricordate, quindi diamo qualche coordinata: band inglese (più che altro si
trattava della creatura del capriccioso Lawrence Hayward: gli altri erano di contorno)
che emerse dal terremoto new wave di fine anni '70, e fu capace di attraversare
gli Ottanta con un jangle pop intriso di cerebrale malinconia esistenziale e chitarrismi
postadolescenziali. I cugini poveri degli Smiths, se volete proprio banalizzare.
Ora, so benissimo che questa è la recensione dell'ultimo album dei Real Estate.
Che non sono nemmeno inglesi, ma di Ridgewood, New Jersey. E che all'epoca cui
faccio riferimento non erano con molta probabilità manco nati. Ma che ci posso
fare, più mi rigiro tra le orecchie questo Atlas, e più la mia mente
resuscita le sensazioni che mi dava, quasi trent'anni fa, l'ascolto di Forever
Breathes the Lonely Word (1986, e capolavoro: fidatevi) o Poem of the River. Mi
sarei tenuto quest'ossessione per me, se non fosse che ho appena letto una recensione
di Atlas su Uncut, che è tutta un citare proprio i Felt (insieme a nomi più scontati,
come i Feelies), tra le maggiori fonti di ispirazione della band. Quindi mi sono
rincuorato: non sono pazzo, la musica che suonano i Real Estate viene proprio
da lì, da quella stagione lontana.
Del resto, a loro volta i Felt erano
in qualche misura una filiazione di Television e Velvet Underground (quelli del
terzo album, naturalmente): quindi i Real Estate non fanno che riportare tutto
a casa, cioè sulla sponda giusta dell'Atlantico. Quello che potrebbe stupire,
al limite, è come un suono così fortemente connotato temporalmente possa essere
trapiantato al presente mantenendo una così alta forza comunicativa (e veicolando
magari significati del tutto nuovi). Perché non si può negare che le dolenti ballate
chitarristiche dei Real Estate centrino il segno: la loro è musica che cattura
il disagio dei momenti di transizione, il senso del trapasso da una stagione a
un'altra, lo smarrimento postindustriale (parolona). Questi "ragazzi da spiaggia"
- etichetta appiccicatagli dalla critica 'mericana, che li fa abbastanza incazzare
- sono ben lontani dall'iconografia californiana del termine: è vero, ci sono
gli strumentali come April's Song che potrebbero essere scambiati come
omaggi alla spensieratezza sixties, così come un persistente profumo di psichedelia
lieve e vaporosa, ma il mood di queste canzoni è inequivocabilmente triste, riflessivo.
Anche i momenti briosi, come il singolo Talking Backwards,
rivelano una natura asprigna, sotto l'intrecciarsi delle chitarre tintinnanti.
La spiaggia che frequentano questi ragazzi è occupata da capannoni fatiscenti,
ville abbandonate o in costruzione (un'occhiata alla copertina del precedente
disco, Days, e capirete cosa intendo), strade che
conducono a periferie suburbane. Rigorosamente fuori stagione. A ben guardare,
Atlas è un disco che potete cominciare da qualunque punto, tanto è evidente la
natura circolare (ripetitiva, anche) delle sue composizioni. Ti irretisce nella
sua ragnatela di arpeggi, e sei fottuto. La formula è la stessa dei due album
che l'hanno preceduto, e per il momento non sembra mostrare la corda. Il passo
avanti semmai è nella produzione: le chitarre di Martin Courtney e Matt Mondanile
suonano più dense e calde che mai (il disco è stato registrato nel loft dei Wilco,
a Chicago), basso e batteria palpitano sullo sfondo, senza disturbare, mentre
l'organo culla le canzoni con un ritmo di risacca. Lasciatevi irretire.
p.s.
Scopro solo a pezzo ultimato che nel 2011 i Real Estate hanno coverizzato - indovinate
un po' - i Felt (Sunlight Bathed The Golden Glow) durante una session per
BBC Radio One. Così, solo per ribadire.