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folk, Americana di
Gianuario Rivelli (22/05/2012)
Se
il sogno americano (o quel che ne resta) non ci pensa proprio ad illuminare le
tue notti, allora svegliati, datti una mossa e cerca almeno di aggrapparti alla
sua scia. E’ in sintesi questa la didascalia sotto la parabola artistica di Joe
Pug, cantautore di Chicago di chiare origini italiane (il suo vero cognome
è Pugliese) che esce con il suo secondo disco, The Great Despiser.
Dopo la proverbiale gavetta come carpentiere, nel 2008 Pug ha l’intuizione di
crearsi una breccia nel già sclerotico music business con una geniale mossa di
marketing: stampa da sé i cd dell’ep Nation of Heat e li spedisce gratuitamente
a chiunque ne faccia richiesta. Il passaparola funziona, i primi riscontri sono
positivi. Ormai il dado è tratto: a lui si interessa la Lightning Rod di Nashville
con cui realizza nel 2010 il suo esordio sulla distanza più lunga, Messanger,
che viene accolto con favore nell’ambiente.
Tutto ciò gli vale un secondo
album con tutti i crismi: la produzione di Brian Deck (nel suo passato
nomi stuzzicanti quali Iron & Wine e Modest Mouse), il piano e l’organo di Sam
Kassirer (pezzo importante della band di Josh Ritter), la partecipazione di Craig
Finn degli Hold Steady. In The Great Despiser Joe Pug si cuce addosso un vestito
da folksinger acustico, con pochi fronzoli ed una particolare attenzione ai testi,
semplici ma accorati. Il suo intento è di inserirsi nella luminosissima tradizione
dei menestrelli di provincia, tutti purezza e sostanza. Peccato che l’ispirazione
intermittente e un carisma tutt’altro che epocale diano vita a un pugno di canzoni
che solo a tratti riescono a sfondare e a creare un rapporto di reale empatia
con l’ascoltatore. E in dischi come questo l’empatia e il coinvolgimento dell’ascoltatore
sono quasi una conditio sine qua non.
La giusta tensione e i chiaroscuri
chitarristici di Hymn #76 così come l’arpeggio
leggiadro di A Gentle Few (con un’atmosfera
alla Cat Stevens), posti nella prima parte, sono una buona base a cui Pug non
è in grado di dare il seguito sperato: lo storytelling in bianco e nero di Those
Thankless Years e One of Many,
il country rivisato di The Servant’s Ace,
il folk nudo e crudo di Deep Dark Wells incespicano
tra luci e ombre senza mai convincere a pieno. La title track e Stronger than
the World, entrambe ben riuscite, infondono al tutto un po’di vitamine roots
facendo pensare che, se Joe Pug avesse dato più colore alle dominanti tonalità
autunnali, avrebbe potuto mascherare meglio un talento non da primo della classe
e ottenere un risultato complessivo migliore. Tant’è: per ora l’uomo appeso al
palloncino non si stacca più di tanto da terra, ma state certi che continuerà
dritto per la sua strada fino alla prossima fermata. Intanto nell’attesa ci è
venuta una gran voglia di un disco di Josh Ritter.