C'era forse da aspetterselo: nella ossuta trama acustica del recente ep -
Nation of the Heath - Joe Pug si mostrava senza filtri, con quella visione
di folksinger fuori tempo massimo, attento alle parole, alla poesia di un verso,
lasciando da parte ogni tentazione di agganciarsi al treno della modernità. Messenger
non dovrebbe dunque soprendere, anche se un parziale ridimensionamento della "promessa"
è del tutto evidente: come se questa giovane voce - soltanto ventitrè anni - non
avesse del tutto staccato il cordone ombelicale che lo lega alla sua formazione
di musicista. Gli è mancato un po' di coraggio a Joe Pug e così ci ha rovinato
la festa: ha piazzato in apertura una title track che è un saliscendi di carezze
folk rock e strizzate d'occhio alla corrente Americana, una ballata di quelle
che ti illuminano anche la più storta delle giornate, ripiegando purtoppo assai
presto su quel binomio chitarra e voce che resta forse la sua dimensione più consona
e fedele, salvo riprendere la marcia verso il rock'n'roll con la versione elettrica
di Speak Plainly, Diana. Quest'ultima però
arriva soltanto alla fine della corsa, quando avrebbe probabilmente dato una scossa
maggiore al viaggio se posta all'inizio, un monito o un manifesto: è dunque in
questa scelta stilitica che la possibile affermazione di Pug come nuova voce del
panorama cantautorale americano si arresta sulla soglia.
Restiamo allora
a vedere se le parole di elogio e i tour in compagnia di Steve Earle e Josh Ritter,
così come l'entusiasmo di una certa parte del pubblico, avranno prima o poi uno
sbocco maturo. Pug oggi assomiglia piuttosto ai suoi mentori, tra un Dylan ancora
giovane, arrabbiato e naif contro i "signori della guerra" (in
Bury Me Far (From My Uniform) canta: "war is older than mankind, but
it's younger than grace"), e meglio ancora i suoi figliocci degli anni settanta
John Prine (magari con un accento più alt-country in The
First Time I Saw You) e Steve Forbert (The
Door Was Always Open potrebbe uscire da Alive on Arrival). D'altronde
per un ragazzo che ha mollato gli studi e dal North Carolina è partito alla volta
di Chicago con un pugno di canzoni in tasca c'era da aspettarselo: il lavoro di
carpentiere di giorno, le canzoni registrate la notte, un posto fisso dove suonare
(il club cittadino dello Schubas Tavern), bastano un microfono e una chitarra
acustica e tutto ha il sapore di un clichè che è tuttavia sacrosanto e necessario.
Lo sono anche queste canzoni per carità, con una produzione che giustamente
cerca di togliere il superfluo e aggiunge quando serve una pedal steel in lontananza
(Not So Sure), un raddoppio di chitarra (Disguised
as Someone Else) ma alla fine si rannicchia il più possibile attorno
alle parole, che restano sincere, disadorne come è naturale che sia per
un tipo così. Gli manca solo un po' di forza e sfacciataggine per andare oltre
e rischiare di diventare un nome su cui giocarsi tutta la posta. (Fabio Cerbone)