Di questi tempi litigiosi e capaci di ragionare
solo in antitesi, a intitolare un disco "legami di famiglia"
si rischia di passare per simpatizzanti di QAnon, reazionari, ferventi
omotransfobici, o peggio, di ricevere un tweet di approvazione da parte
Giorgia Meloni. Per fortuna, però, Family Ties, terzo album di
Charles Wesley Godwin da Morgantown, West Virginia, è molto più
interessante dello spot Esselunga sulla pesca, e se vogliamo anche più
sfaccettato e problematico. Non si tratta, infatti, di un’apologia in
musica della famiglia tradizionale, ma di una serie di cartoline dal passato,
di sequenze rievocate dalla memoria ancora relativamente giovane del loro
"regista" (da poco trentenne), al quale interessa comporre un
affresco in miniatura sulle radici operaie e contadine del suo stato di
nascita oggi poverissimo, come altri luoghi d’America colpito in profondità
dalla desertificazione post-industriale seguita alla scelta di de-carbonizzarne
l’economia e rapidamente condannato a trasformarsi in un cimitero di capannoni
e, appunto, famiglie, abbandonate a se stesse.
Per farlo, nonché per far emergere quel pizzico di carattere in più che
Fabio Cerbone, recensendo il precedente
How The Mighty Fall (2021), auspicava l’autore riuscisse prima o poi
a tirar fuori, Godwin si è affidato alla generosità di una scaletta da
19 episodi dove, pur non essendo tutti i brani allo stesso livello (altrimenti
parleremmo del disco dell’anno), non mancano suggestioni e visioni, colpi
d’ala e passaggi memorabili. Registrato in North Carolina sotto la supervisione
del chitarrista Al Torrence, Family Ties oscilla tra la
perlustrazione delle radici e i malinconici paesaggi Americana attraversati,
in passato, da Ryan Adams, e in tempi più recenti dal collega Zach Bryan.
Rispetto a quest’ultimo, che molto aveva promesso nell’ambizioso American
Heartbreak (2022) ma ancora deve dimostrare di saper tenere fede alla
parola data, Godwin manifesta comunque un’altra concretezza, un ruvido
spirito heartland riscontrabile sia nel gesto rockista di una
Two Weeks Gone imparentata con Chris Knight sia nello scrosciare
elettrico di una Cue Country Roads
dai sapori sudisti.
Di tanto in tanto si affaccia sul programma anche l’ombra di Bruce Springsteen,
e se l’omaggio a State Trooper dell’acustica e sulfurea 10-38
non sorprende più nessuno, perché lo stupore derivante dall’intreccio
tra la nuda solitudine di una sei corde stonata con le atmosfere dei Suicide
si è consumato ormai da tempo, la canzone resta nondimeno maiuscola. Malgrado
Godwin rimanga concentrato, soprattutto nell’ideale prima parte del disco,
sulle cadenze non troppo movimentate di un dimesso, bucolico country-rock
venato di folk e roots, le sue qualità d’autore assicurano al ritratto
paterno dell’asciutta Miner Imperfection,
agli effetti "ambientali" della roboante The
Flood, ai violini old-timey dell’elegiaca All Again
o all’incedere semiacustico delle varie Skyline Blues e Dance
In Rain la facoltà di non cedere alla monotonia. Nell’intensa West
Of Lonesome è evidente l’influenza del citato Bryan, nel soul per
pianoforte di Soul Like Mine quella di Marc Cohn e nell’inno stentoreo
di Willing And Able, a dirla tutta, c’è qualche ammiccamento radiofonico
di troppo.
Ma anche quando va a rispolverare la classica
Take Me Home, Country Roads di John Denver, per darne una versione
corale e toccante, Godwin non lo fa con l’intenzione di adoperare la scorciatoia
della stucchevolezza, bensì per celebrare a modo suo l’America rurale
degli ultimi e dei disperati, di chi non possiede né istruzione né garanzie
e fa i conti con una marginalità economica e culturale sul punto di cronicizzarsi
per sempre. Orgoglio localista da contrapporre alle paure indotte dalla
globalizzazione? Può darsi. Ma una volta tanto è bello sintonizzarsi sulle
frequenze di un mondo in cui non solo i Family Ties di Charles
Wesley Godwin, ma tutti gli stretti legami di una classe lavoratrice ancora
viva, risuonano con simile freschezza.