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midwestern country troubadour
di Davide Albini (21/10/2020)
Una linea di credito ottenuta
dalla Oh Boy records, l’etichetta discografica fondata da John Prine,
credo sia già un piccolo vanto per Arlo McKinley, e un campanello
d’allarme per metterci sulle tracce di una nuova autentica voce dal Midwest
americano. McKinley è stato l’ultimo autore messo sotto contratto personalmente
da John, prima della sua dolorosa scomparsa la scorsa primavera. Dopo
averlo visto esirbirsi dal vivo, colpito dalla voce e dalle canzoni (in
particolare dalla cruda Bag of Pills) del quarantenne di Cincinnati,
Ohio, Prine deve avere colto in Arlo un songwriter di quelli che non hanno
paura di raccontare le cose come stanno, di descrivere in maniera onesta
la vita della provincia americana, di quella “Rust Belt” in cui è cresciuto
e che ha visto piano piano disgregarsi nel suo tessuto sociale e umano.
Die Midwestern è una specie di elegia per quella terra,
canta di speranze e disilllusioni, di colpi duri inferti dalla quotidianità,
di tossicodipendenza ma anche di amore e lotta per risollevarsi, e potrebbe
essere la colonna sonora ideale di romanzi come Ruggine americana di
Philipp Meyer o il recente Ohio
di Stephen Markley. Allevato attraverso i canti gospel della chiesa battista
di quartiere ed educato alla musica country dalla collezione di album
bluegrass e di Hank Williams posseduti dal padre, McKinley approda maturo
all’esordio solista, dopo una parentesi poco fortunata con The Lonesome
Sound, band dal breve successo locale. I dieci episodi dell’album sono
dunque frutto di anni di gavetta e riflettono una compattezza che spesso
non si attribuisce ad un “debuttante”: la produzione del quotato Matt
Ross-Spang (Jason Isbell, Margo Price) negli studi di Memphis e la partecipazione
alle session di musicisti come Ken Coomer (ex Wilco e Uncle Tupelo), Will
Sexton, Rick Steff (Lucero) aggiungono solidità al disco, il cui unico
vero difetto è forse una eccessiva uniformità di atmosfere.
McKinley si aggiunge a quella lunga lista di talenti che in queste stagioni
stanno ridando letteralmente slancio al genere, a metà strada fra Ian
Noe e John Moreland (sentite Gone for Good,
per esempio), se dovessi cercare dei contemporanei punti di riferimento
stilistici, tratti che emergono dalle sue ballad, un po’ country d’autore
e un po’ heartland rock, attraversate da una vena accorata e malinconica,
elettro-acustiche nella loro struttura cadenzata, come emerge dall’apertura
di We Were Alright. Piano, violino e acustiche gettano le fondamenta,
la ritmica ha un’anima rock, l’elettricità è sempre in agguato e si palesa
spesso strada facendo. La title track possiede accenti honky tonk, la
voce di Arlo evidenzia la sua forza descrittiva, prima che She’s Always
Been Around si abbeveri alla fonte della country music più classica,
con l'immagine di George Jones a proteggerlo.
La disperazione della citata Bag of Pills
è un banco di prova per l’interpretazione sempre molto drammatica di McKinley,
che qui mi ha ricordato non poco Ben Nichols dei Lucero, mentre nel corpo
centrale del disco si sviluppa tutta una serie di ballate, da The Hurtin’s
Done a Whatever You Want all’azzeccata melodia di Suicidal
Saturday Night, un dolce violino in combutta con l’organo e un bell’impasto
di voci, fino alla chiusura con l’accesa Walking
Shoes, che sono esattamente quello che ci aspetteremmo da un
cantore dell’America ferita.