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I wish I'd been the next Townes Van Vandt... di
Fabio Cerbone (17/06/2014)
Forte
di una nomination ai Grammy per il suo vero e proprio esordio discografico (in
precedenza il solo Live at the Blue Door), quel From
the Gound Up che si era segnalato come uno degli album Americana più
apprezzati dagli addetti ai lavori nel 2012, John Fullbright, ventiseienne
dell'Okahoma con Woody Guthrie e Townes Van Zandt stampati nel cuore, come lui
stesso ci racconta, ha pensato bene di riproporre una sorta di "secondo tempo"
con il qui presente Songs. Ancora spartano nei suoni e negli arrangiamenti,
per buona parte sorretto unicamente dalla sua voce, dal piano (anche elettrico,
con l'utilizzo del Wurlitzer) e dalla chitarra acustica, è un susseguirsi di ballate
confessionali e suggestioni d'amore, dove le parole e la persona stessa di Fullbright
sono al centro dell'attenzione.
Questo è probabile che sia il suo
fascino e anche il suo grande limite, ciò che rende Songs una raccolta spesso
solo abbozzata, qualche volta sinceramente monotona, sempre ferma un passo prima
della sua completa sbocciatura. Probabilmente resterà un parere isolato e di cui
pentirsi, stando almeno all'accoglienza che il disco sta già ricevendo dalla stampa
americana dis ettore: qualcuno, davvero sopra le righe è il caso di dire,
ha già scomodato paragoni fra la giovane età di Fullbright e la bellezza di opere
come After the Gold Rush o Blue, per tracciare un filo rosso con la storia della
canzone d'autore folk. Cosa non si fa per ritrovare un po' della magia del passato:
tornando sul pianeta terra, queste ballate sembrano speciali per la loro sobria
partitura, che porta in primo piano una certa acerba bellezza delle melodie, e
la voce matura, oltre i suoi anni, del songwriter John Fullbright, in Keeping
Hope Alive e Until You Were Gone.
Il problema è che lui guarderà anche a Townes Van Zandt, ma il modello (nei testi
più ancora che nella musica) resta parecchio distante, anche perché, mettendoci
qualche volta un po' di sarcasmo nelle parole, Songs, con le sue solitarie pause
pianistiche (When You're here, All That You Know,
Very First Time), pare ispirarsi più a Randy Newman, ma senza lo stesso
savoir faire, va da sé.
Ecco perché sarebbe stato meglio che John
Fullbright e il produttore (e bassista) Wes Sahron uscissero un po' dall'angolo,
smuovendo le acque: la younghiana Happy (forse
non ricorda un po' il dondolio di Out on the Weekend?) e il suo dolce fischiettio
in apertura, ad esempio, o il brillante folk rock di Never
Cry Again restano purtroppo episodi isolati, i pochi insieme alla ballata
dalle fragranze country soul The One Thet Lives So Far e forse alla dylaniana
Going Home a tentare di arricchire il piatto.
Comunque brani che, con tutta la sorpresa possibile celebrata dalla critica americana,
gente come Todd Snider scriveva quindici o venti anni fa, giusto per ristabilire
un po' di naturali proporzioni e che oggi Jason Isbell (lui si un gradino sopra
la media) rende con molta più efficacia. Bravo si, fuoriclasse no, ma soprattutto
i capolavori scomodiamoli con meno leggerezza la prossima volta.