In genere strapazzato dalla critica, certo rock nato e sviluppatosi a cavallo
tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70 attorno al formato classico del power-trio,
visto un tempo come sinonimo di inguaribile passatismo musicale rivolto soprattutto
a un ridotto ma fedelissimo manipolo di nostalgici, torna oggi a essere rivalutato
ovunque, persino nelle espressioni più essenziali e monolitiche. I ferraresi Underground
Railroad, per esempio, in circolazione dal 2003 e con già due dischi all'attivo,
firmano il terzo Growing Three forti di un piccolo status di musicisti
di culto, portando avanti con determinazione un discorso dove suoni vintage, contenuti
universali e manifesta rivendicazione di un condiviso bagaglio di passioni rappresentano
sempre un punto di partenza e mai una forma di limitazione. Il nuovo disco è,
ancora una volta, un atto d'amore, un'occasione per rivendicare la personale,
magnifica ossessione per il rock-blues a tinte heavy di Taste, Free, Medicine
Head e accoliti, spesso contaminato da digressioni alla Led Zeppelin e da un gusto
per l'impatto melodico che ricorda un po' l'hard-rock degli Ottanta (e si spinge
talvolta fino a citare i primi Black Crowes).
Dalla sei corde secca e
cattiva dell'iniziale Not For Sale al tono
pastorale della malinconica Broken Angel,
la voce di Enrico Cipollini (chitarrista e tastierista della formazione) e la
sezione ritmica composta da Andrea Orlando (basso) e Nicola Fantini (batteria)
fanno di tutto per tirarci dentro una dimensione spazio-temporale alternativa
dove i riff massicci e geometrici di It Takes The Devil,
le pennate epiche di una Flow tra i Trapeze e i Quireboys o le crude atmosfere
hard-boiled della tesa Sealight costituiscono altrettanti omaggi a un'epoca
in cui psichedelia e blues elettrico sembravano essere destinati a percorrere
in parallelo i sentieri di un'industria discografica non ancora collassata su
se stessa. L'affresco proposto dal gruppo, in pratica una vera e propria radiografia
del rock-blues in tutte le sue possibili incarnazioni, è lungo (forse troppo:
16 brani per oltre 70 minuti di musica), ambizioso, senz'altro impegnativo eppure
costruito facendo leva di uno slancio talmente genuino da renderne immediatamente
apprezzabili anche gli episodi in apparenza riservati solo ai fan di stretta osservanza
del genere.
Non è a costoro, tuttavia, che si rivolgono i tamburi disarticolati
dell'interessante At The Bottom, la cavalcata
countreggiante di Down The Well o il rock'n'roll
acido e sudista di Underdog Road, tutti momenti in cui gli Underground
Railroad perdono di vista la granitica compattezza delle altre tracce per sperimentare
con arrangiamenti e ambiente acustico, scegliendo per una volta di immaginare
un mondo possibile anziché limitarsi a evocarne le passate glorie di quello conosciuto
(e vissuto). Tuttavia, entrambe le opzioni, sia la scelta di lasciarsi andare
(sulle tracce degli Zep del terzo album) sia quella di concentrarsi sul volume
di fuoco e l'incedere sferzante delle varie The Ground, Blind Eyes
e All Of My Wisdom, producono risultati degni di nota: e se ciò accade,
lo si deve alla trasformazione di quanto altrove sarebbe stereotipo dei più triti
in squillante indicatore di uno sconfinato rispetto nei confronti della tradizione,
eco rabbiosa della memoria. Growing Three ha le carte in regola
per piacere anche a chi di rievocazioni proprio non vuol sentire parlare. Chi
invece le ama a prescindere troverà negli Underground Railroad un piacevolissimo
ricettacolo di sintonie.