È un sound dilatato, liquido
nella stesura delle melodie “americane”, quello che guida le ballate
dei cenesati Sunday Morning. Four, come intende
esplicitamente il titolo, è il quarto capitolo di una storia che
ha avuto più ripartenze e cambi di rotta, assestata a partire
dal 2015 grazie alla pubblicazione di Instant Lovers e
rinnovata un anno dopo con Let It Burn e il legame discografico
con Bronson Recordings, l’etichetta collegata al famoso circolo
musicale ravennate. La svolta e potremmo dire la piena maturità
degli arrangiamenti che emerge in Four giunge dopo
l’esperienza di Andrea Cola (voce, chitarre, tastiere) presso
gli studi Esplanade di New Orleans, a carpire i segreti di un
maestro come Daniel Lanois. La concezione folk rock che si espande
nell’apertura manifesto di If I Go, nella pianistica e
settantesca Dreamer, fra la dolciastra armonia di May
Your Heart ha certamente fatto tesoro di quell’incontro, ma
il merito è tutto del quartetto, completato da Luca Galassi alle
chitarre, Federico Guardigni alla batteria e Jacopo Casadei al
basso. Colpisce il mood sognante dei brani e la raffinata cesellatura
delle melodie, con implicazioni soul, complice anche il ruolo
spesso decisivo del piano, capace di affondare nella tradizione,
di farsi rock da epica della strada in Broken Arms e Lovers,
quasi sudista in Tree, salvo non dimenticare la lezione
di rinnovamento di quei suoni operata da band come National e
War on Drugs (Power, oppure il mix di acustico e sintetico
nel finale di The Boy Beside the Flame), mentre l’accorata
intepretazione di Prove It sembra trasportare i Wilco in
terra d’Albione.
Ruben
Minuto Think
of Paradise [RecLab
Studios 2019]
Con le difficoltà che riconosciamo a tutti
quei coraggiosi (e di talento) musicisti italiani che hanno scelto
una strada artistica in salita, anche Ruben Minuto, cinquantenne
chitarrista milanese, già nei progetti Mr. Saturday Night Special
e No Rolling Back, si riaffaccia con un disco solista dopo parecchi
anni, passati comunque a suonare in giro, spesso facendosi conoscere
al fianco di artisti americani, accompagnati in tour dalle nostre
parti. Cresciuto fra i linguaggi del blues, del country e del
southern rock, arrivato a farsi apprezzare nei festival americani
e dalla stampa di Chicago, Minuto è uno strumentista (anche banjo
e basso in questo disco) e autore che pensa, scrive e canta con
l’idea di american roots music nella testa e nelle dita, annullando
il divario con i modelli di riferimento. Se dovessimo imputare
qualche leggero difetto al qui presente Think of Paradise
sarebbe semmai una voce, ad ogni modo grintosa e credibile fin
dall’apertura con If You’re Strong, a tratti poco malleabile
(ne soffrono un po’ I Forgot How to Sip e The Wind Blew),
e magari una produzione qualche volta troppo artigianale. Certamente
non avremmo dubbi sulla tenuta musicale di un disco che si fa
apprezzare soprattutto nei suoi momenti più dilatati, nei toni
ariosi fra country rock e ballata west coast che si imprimono
nella stessa title track, in Bringing Light and Sorrow
e Be Alive, con testi soprendentemente riflessivi, mentre
al grezzo impasto elettrico di Credit To Your Rind e My
Evil Twin è riservato il vivace passo southern rock che alimenta
il sound della band (con Riccardo Maccabruni al piano, Luca Crippa
alla lap steel e chitarre e la partecipazione di lar Premoli all’organo
Hammond).
Definisce le sue canzoni come
quadri, le immaginiamo allora come colpi di pennello che fermano
un momento, un’emozione umana, costruendo un’atmosfera spesso
raccolta ed elegante. Ci andiamo davvero vicino e non possiamo
non dare ragione ad Alberto De Gara, che in Still
in Time conferma le buone impressioni già suscitate con
l’esordio solista Deeper.
Non essendo un ragazzino, con una trafila di esperienze in cover
band locali e progetti vari che ne hanno affinato la passione
per certi suoni d’oltreoceano, De Gara arriva strutturato e preciso
alla cesellatura delle sue ballate, in gran parte arrangiate con
la perfetta mediazione fra semplicità e gusto musicale d’autore.
La base è spesso acustica, un lieve candore folk in Talkin’
About You, Hear my Prayer, sentimentale al punto giusto
in Like Never Before, che si apre però anche alle carezze
di una ballata rock dall’anima West Coast (Please Stay)
e con potenzialità pop non indifferenti (la bella Annie J,
forse il gioiello dell’intera raccolta). Niente trucchi, una voce
ancora una volta confidenziale, dal tocco di velluto, che scende
in profondità con lo scuro folk rock di Behind You Deep Eyes,
Blue e leviga la superficie del blues e del funky con il pulsare
di Great News (altro bel colpo assestato) ed Every Time
I Taste Your Love, accompagnata da fiati e ritimiche più groovy.
Dolcezza e passione, come dice lo stesso De Gara, e Still in
Time, anche al netto di risultare qualche volta troppo “impostato”,
ne è una bella dimostrazione.
Daniele
Marini Questa
non è Nashville [C&M
Recorfonic 2019]
Questa non è Nashville, proprio così,
ma pur sempre la capitale d’Italia, Roma, che una sua scena folk
l’ha sbadierata fin dagli anni settanta. Daniele Marini
è un autentico outsider persino in quel contesto: cuore e anima
del cantautore romano battono infatti per le strade polverose
d’America e per un suono country purissimo che si sporca di honky
tonk elettrico e con un po’ di Texas che scorre nelle vene. Il
suo album d’esordio è una curiosa anomalia e tutto sommato un
gesto di tenacia, anche al netto delle inevitabili ingenuità e
imperfezioni ancora da assestare in questo matrimonio musicale.
Se i suoni e le atmosfere sono quelli distanti di una prateria
americana, perché non provare a tradurli nel linguaggio schietto
del dialetto romano? Daniele Marini va a prendere i versi da ciò
che trova in casa, nel suo quartiere e nell’esperienza di vita
personale (la stessa title track), non ci prova neppure a riprodurre
la cadenza inglese e semmai traduce Women di Jamey Johnson
in Donne, reinterpreta l’intensa ballata Barabba
di Jason Eady e si cimenta con un classico di Randy Travis (On
the Other Hand), che qui si trasforma nell’ironia di D’artra
parte. Marini si aggrappa a un sound brusco e sincero e anche
nei brani autografi gioca con un fatalismo alla Trilussa, che
si traduce nel country rock da anti-casta politica di Je Frega
Assai o nell’amara Nessun Messaggio. La cornice di
pedal steel, dobro, banjo e una seconda voce femminile offerta
dalla band (un quartetto) e dagli ospiti completa questa dichiarazione
d’affetto con annessa ricerca filologica sulla country music.