Se li prendesse uno come Mark
Kozelek dieci anni di tempo per scrivere nuovi brani, invece di
pubblicare a raffica album di oltre un’ora in cui è evidente l’esigenza
di esprimersi, ma molto meno la pazienza di costruire vere canzoni...
Parlo di lui perché il varesino Alessandro Rocca mostra
sicuramente molte affinità con il mondo riflessivo (e senza paura
dei tempi lunghi) dell’ex Red House Painters, e questo Transiti,
album che segue l’esordio indipendente ormai datato 2009, lo dimostra
appieno. Quasi un’ora di musica, ritmi lenti e dilatati, una band
elettro-acustica di primo livello capitanata dal factotum Luca
Gambacorta, che suona e produce tutto tranne la chitarra acustica
suonata dallo stesso Rocca, il violoncello di Cecilia Santo (che
fa la differenza nel contesto), il contrabbasso di Marco Di Francesco
e il clarinetto di Paolo Grassi. Un tessuto musicale ben congegnato
che sorregge una lunga serie di riflessioni e immagini, quasi
sussurrate da Rocca, uno che ama il particolare della parola e
la ricerca di osservazioni non comuni. Un artista votato all’isolamento
che invece che chiudersi nel suo mondo, osserva gli spazi che
lo circondano (“Sono qui, usando stipiti da limiti, non li oltrepasserò”
canta nell’iniziale Stipiti). Transiti è il racconto
di un uomo che dal buio di una stanza, come quella della bellissima
copertina quasi alla Edvard Munch creata Andrea Tsuna Tomassini,
passa in rassegna dolori, delusioni, ma anche gioie. Non è un
disco facile, richiede quello che oggi pare merce rara, e cioè
l’attenzione, ma brani come Topi o Licaone meritano
di essere vissuti. “Chi dorme nella stanza che ha incubato i pensieri
miei, basati sulla distanza?” si chiede in Fossili, e questa
musica serve proprio ad abbattere quella lontananza tra le tante
anime che pulsano solitarie dal chiuso delle loro case.
La recensione al suo disco Le urla degli
ubriachi nel mezzo della notte è datata 2003, una delle prime
apparse sulle nostre pagine, ma da allora Guglielmo Ubaldi (in
arte ormai definitivamente Ubba) non è stato fermo, prediligendo
l’attività di stand-up comedian, ma non dimenticando la musica,
portata avanti ormai da anni con la sigla Ubba Bond creata
in collaborazione con il polistrumentista Andrea Bondi. Mangiasabbia
però sembra voler fare le cose “sul serio”, mantenendo intatta
la loro vis comica (evidente anche nel video di Filo Interrotto,
parodia dei workout casalinghi da quarantena di questi tristi
tempi di coronavirus), ma con un pugno di canzoni attente nei
testi e nella produzione. E’ un disco che scivola senza intoppi,
con brani in cui convogliano i sapori di rock americano di Girasoli
Olandesi (sembra di sentire gli Hold Steady in italiano) e
Piove il Mondo, ballate pianistiche che cercano Rino Gaetano
(Sale), soul-ballad ammodernate (Sushi, bel duetto
con Patrizia Urbani "Miss Patty Miss"), a cui si aggiungono le
dissonanze elettriche di Aprile, l’alternative-rock di
Sake, e il fine arrangiamento di archi e fiati che sostiene
la parlata Su Milioni di Auto, liberamente tratta da un
racconto di Max Guidetti. Ubba svela nei testi il suo mondo fatto
di nonsense, ma anche di riflessioni e un buon romanticismo d’immagini
(“è sempre la direzione del vento a dirci cosa Bob? Dici che la
paura ha imparato in fretta a consumarmi il cuore, Bob?” canta
nell’iniziale Bob), e una malinconia comunque evidente
anche nei versi più ironici, che si fa tristezza vera nella dedica
al sassofonista dell’album Daniel Cau, scomparso a session ultimate.
Il dilemma in questione è uno
dei più famosi della letteratura, quello di Gregor Samsa, protagonista
della Metamorfosi di Kafka. La musica dei Samsa Dilemma,
ne consegue, si attorciglia attorno a melodia e rumore, in equilibrio
instabile tra sferzate di energia punk noise, alternative rock
che attinge a piene mani dall’esperienza dei Novanta e ballate
con una malinconica matrice folk, dettata anche dall’utilizzo
interessante di armonica e violino. Everyday Struggle
testimonia questa “lotta”, anche nei testi, dosando estasi e abbandono
nella sua colonna sonora. All’esordio nel 2016 con Wake Up
Gregor!!, ma in verità forti di una lunga militanza, più di
vent’anni, del fondatore Riccardo Pro in diversi progetti dell’indie
rock italiano (Mahatma Transistor e Pugaciov sulla Luna tra gli
altri), i Samsa Dilemma allargano l’anima del gruppo (l’altro
membro storico il chitarrista trentino Daniel Sartori) con la
collaborazione attiva di Fabrizio Keller alla batteria e Fausto
Postinghel al basso, ai quali si affiancano gli interventi di
Vanessa Cremaschi al violino ed Enrico Merlin alle chitarre (co-autore
della chiosa acustica di 21 November 2018). E l’eclettico
apporto dei contributi rende Everyday Struggle un disco
felicemente instabile, che parte con la veemenza noise rock di
Potion Mood, alla maniera dei Sonic Youth della maturità,
per approdare a certa sbilenca poetica alt-rock dei maestri Pavement
in Brand New Day e Destroy The Future (Talkin’ About
Mahatma Transistor). Chiare le radici sonore della band, e
detto in qualche modo della qualità straniante delle ballate -
2AM e 1000 Nightmares (For Dad) su tutte – a convincere
di meno sono proprio i due episodi in lingua italiana (Destino
e Non Funziona, quest’ultima vagheggiante un funk rock
alla Red Hot Chili Peppers), forse per semplici questioni di assonanze
e stile.
Country
Feedback Season
Premiere [MiaCameretta
Records 2020]
File
Under:
Things to do in Frosinone when
you’re alone
Una tipica foto di famiglia di fine anni
Settanta introduce all’ascolto del disco di Country Feedback,
nickname evidentemente rubato ai R.E.M. da Antonio Tortorello,
musicista di Frosinone con alle spalle svariati progetti (era
il bassista dei 7 Training Days), che esordisce da solista con
questo Season Premiere. Disco suonato quasi in solitaria,
sotto la direzione del produttore Filippo Strang, con l’ausilio
di qualche intervento di amici (tra i quali anche Cristiano Pizzuti
dei Black Tail, che vi abbiamo presentato nel numero scorso di
Made In Italy, Ettore Pistolesi dei Flying Vaginas, Luciah Scaccia),
l’album di Tortorello è un caleidoscopio di influenze, suoni,
e citazioni che necessitano più ascolti per essere colti nella
loro interezza. Più che a Stipe e soci infatti, la sua musica
guarda semmai al David Byrne sperimentatore di suoni, ritmi e
culture musicali, con una certa anarchia di strutture, quasi da
free-jazz più che da rock. Il brano d’apertura, Stuck Dat Corn
Before You Eat (frase rubata da una working-song di fine dell’Ottocento)
getta subito l’ascoltatore in un mondo che da un giro di basso
alla Pixies, esplode in loop di fiati e percussioni, per una sorta
di indiavolato gospel urbano, ben commentato con le immagini di
una Frosinone vuota e desolata del video. Altrove si affronta
un rock più lineare (Love Usually Leads to Trouble sembra
un brano di Bob Mould con i fiati), con i sapori da sixty-soul
di Sparkles e una It Sounds Like The 90’s che rende
chiaro come la sua ispirazione peschi da tutto il mondo indipendente
di quegli anni. Altro brano molto bello, che ricorda quasi i Jesus
and Mary Chain del periodo Stoned & Dethroned, è When We Were
Young, col nostalgico video fatto con veri filmini dell’epoca.
Da seguire.