Il sorriso è coinvolgente, anche se la foto è leggermente
sfocata, con quel soggetto bucolico sullo sfondo che sembra già richiamare
alcune suggestioni musicali dell’album: nella copertina di Life
è racchiuso il doppio volto di queste canzoni, spesso luminose dal punto
di vista sonoro, ma che nascondono un’anima più sofferta, un percorso
di vita che la stessa autrice suggerisce nelle note interne del disco,
parlando di anni impegnativi “a livello fisico ed emotivo”. La cura
è rappresentata dalla bellezza di ventisette tracce e un ambizioso doppio
album, che mette in gioco tutte le passioni di Ellen River, nome
d’arte della modenese Elena Ortalli, a cinque anni dal primo vero e
proprio esordio, Lost Souls, sotto questo pseudonimo.
Fin troppo facile muovere subito l’appunto che ci sia troppa abbondanza,
soprattutto da una musicista indipendente che prova a ritagliarsi il
giusto spazio sulla scena italiana, quella che guarda all’America dei
grandi songwriter e del folk rock a tinte tradizionaliste: peccato che
passaggi a vuoto o peggio cadute di tono non ve ne siano affatto in
Life, giusto qualche ripetizione della formula che per nulla
scalfisce la superficie brillante che Ellen River e i suoi collaboratori
(con la produzione di Gianluca Morelli) sono stati capaci di imprimere
a questa notevole raccolta, fatta di sensazioni e racconti dal taglio
autobiografico ed esistenziale.
Lo si poteva intuire sin dal primo singolo, la stessa Life,
incantevole passo rock agreste che oggi passerebbe per Americana, ma
arriva dall’Emilia, terra quanto mai sensibile negli anni a questo tipo
di suoni. Qui tutto rimanda a quell’intreccio di radici folk, blues,
country e filiazioni rock che costituisce l’ossatura di certo cantautorato
ormai familiare su queste pagine: che a proporlo sia la voce - bella,
trascinante e aggrazziata a seconda delle esigenze espressive del brano
- di Ellen River non dovrebbe sorprenderci più del dovuto, perché il
panorama di casa nostra è maturo da tempo per ricevere lavori discografici
di questa qualità.
Non bastassero le descrizioni appena accennate, arrivano le sfumature
“mississippiane” di Blues for G, che subito si tramutano nella
drammaticità rock di Better than Me,
per attraversare quindi i toni più dolciastri di Renata e quelli
pastorali del county rock di Double Trouble,
con la pedal steel dell’ospite Alex Valle. Sono soltanto alcuni esempi
dell’agilità musicale con la quale Life ed Ellen River stessa
traducono i diversi sentimenti richiamati all’interno di queste canzoni.
Con le chitarre di Boris Casadei attente a sottolineare ogni cambio
di umore, le coloriture essenziali del piano (Stefano Zambardino, anche
all’accordion), dell’organo Hammond (Enrico Giannini) e del banjo ((Marco
Maccari), solo una parte delle numerose scelte stilistiche e delle partecipazioni
che Life prevede lungo il suo percorso, il disco riesce concretamente
a non cedere sotto i colpi delle sue stesse aspirazioni, sebbene sia
naturale che qualche numero brilli più di altri di luce propria: nella
generosa offerta a disposizione, noi proviamo a citare il trascinante
cuore soul di I See, tra le migliori
in scaletta, la pianistica Waiting, capace di risaltare l’interpretazione
emotiva di Ellen River, e ancora la scura tessitura tra gospel, rock
e country gotico di Just a Bad Dream
e Would You? (con l’intervento del violoncello di Enrico Guerzoni),
la tenerezza di Lucy e i nitidi colori di Inside a Picture.
Ma per una volta davvero non è un luogo comune che sia l’insieme e non
le singole parti a fare la differenza: c’è un angolo di Life
per ciascun ascoltatore, materiale che potrà incuriosire o addirittura
conquistare, e se più miti consigli avrebbero forse richiesto a Ellen
River di condensare il meglio di questo raccolto, magari per sfruttarlo
ancora in un album successivo, pare di poter dire che alla fine abbia
avuto ragione lei.