Massimiliano Larocca
Exit | Enfer
[Santeria Records/Audioglobe 2019]


File Under: The Hugo's way

facebook.com/maxlaroccamusicpage

di Nicola Gervasini

Bastano anche solo i primi trenta secondi dell’iniziale Black Love per capire come il viaggio musicale di Massimiliano Larocca abbia ormai preso strade ben diverse rispetto al folk degli esordi. Escludendo il progetto dedicato al poeta Dino Campana (Un mistero di sogni avverati), che fa storia a sé, se il precedente Qualcuno stanotte già si faceva scudo degli arrangiamenti mai banali di Antonio Gramentieri aka Don Antonio (comunque in session anche in questa occasione), qui addirittura troviamo Hugo Race in regia, e il brano sopracitato, cantato in inglese, altro non sembra che una sua canzone. E fa quindi un po’ impressione all’inizio ascoltare Massimiliano cantare una delle sue classiche composizioni come Cose che non cambiano su una base elettronica, quasi da trip-hop anni 90, ma se nel precedente lavoro a volte si sentiva un leggero slegamento tra la parte musicale e la parte cantata, oggi il merito subito evidente di Race è quello di aver reso la voce di Larocca perfettamente funzionale al suono utilizzato. Hugo Race lavora spesso giocando di sottrazione, lasciando comunque in primo piano la canzone quando non necessita di troppi interventi (Il giardino dei salici) o "sovrastando" con suoni e voci quando magari la melodia si fa semplice talking-blues (Guerra fredda, con il piano di Howe Gelb, o Il regno, con la voce di Giulia Millanta). Un mix di elettronica, chitarre spesso distorte e atmosfere decisamente noir che tradisce il tocco d’autore del regista, ma che Larocca sa riempire con un pugno di canzoni convincenti che non smettono mai di tradire la loro natura di folk-songs da leggere e riascoltare come (Eravamo) Orfani, Si chiamava Lulù o Il cuore degli sconosciuti, fino ad una curiosa ballata anni 60 come Fin Du Monde. Qualcuno storcerà il naso per tanta “modernità”, ma Exit/Enfer è il più classico “disco della maturità”.


 


Alberto Mancinelli
Tutto l'amore che c'era
[Alberto Mancinelli 2018]


File Under: folk rock

soundcloud.com/alberto-mancinelli

di Fabio Cerbone

Inganna il tratto di copertina, che potrebbe evocare lievità pop da cantautore contemporaneo, anche se il colore rosso richiama l’intensità dei testi, sospesi fra pensieri d’amore sofferto e un piglio esistenzialista. Tutto l’amore che c’era è un disco che offre invece più dettagli al suo ascolto, lontano dai luoghi comuni del generico indie d’autore di moda, al crocevia fra una canzone folk rock ombrosa che guarda ai maestri americani e una scrittura figlia semmai delle esperienze “alternative” del rock italiano degli anni Novanta. Arriva da lì la storia di questo musicista di origini siciliane, trasferitosi da diverso tempo in Veneto, prima alla guida degli Electric Bayons, con apparizioni tra festival e rassegne, poi con una serie di lavori solisti, spesso all’insegna della totale indipendenza e autoproduzione, prediligendo il gesto elettro-acustico e una contaminazione con l’elettronica. Innegabile che Alberto Mancinelli giochi finalmente la sua carta più ambiziosa con questo album, inciso nella primavera del 2018 negli studi di Modigliana sotto la direzione artistica di Antonio Gramentieri (Don Antonio) e con la collaborazione di diversi ospiti, tra cui spiccano le percussioni di Denis Valentini e la batteria di Piero Perelli, il violino di Vicky Brown e i rintocchi di organo e synth di Nicola Peruch. Insieme offrono l’abito sonoro più adatto per accompagnare la voce “svogliata” e malinconica di Mancinelli, doppiata da Elisa Rodolfi nella suadente apertura di Lentamente. I toni autunnali e languidi della ballata colorano buona parte del repertorio, ma l’intreccio minimalista degli arrangiamenti sostiene i dieci episodi, che si sfaldano trasparenti ne Il gesto, sottilmente bluesati e notturni in Corsia d’emergenza, scuri nel folk rock di Sirene stonate e Farti male. Il finale di Da qualche parte sfodera accenti dylaniani, che in collisione con il canto in lingua italiana non possono non ricordare De Gregori.


     


Mr. Wob And The Canes
Not Your Negro
[Voodoo Roots Stew 2019]


File Under: Voodoo Roots Stew

facebook.com/thewobpage

di Nicola Gervasini

Oggi se scrivete la parola “negro” in un social siete a rischio di censura, se non proprio di blocco, e l’algoritmo spesso non bada al senso della frase ma al semplice uso di un termine considerato (giustamente) non politically correct. Ma in musica “fare musica da negri” si sa da sempre che è un complimento, dato da ragioni storiche che fanno della black-music una delle componenti fondamentali dell’arte del mondo occidentale. Lo sanno bene i veneziani Mr. Wob And The Canes che con puro spirito antirazzista intitolano Not Your Negro (si veda l'omonimo documentario su James Baldwin, ndr) il loro terzo album, vero melting-pot di influenze che chiamano “Voodoo Roots Stew” (spezzatino di radici Voodoo), che vanno dal blues classico con il quale hanno esordito nel 2014 grazie all’album Invitation To The Gathering, fino a elementi latinoamericani o afro, come dimostrano negli omaggi al Voodoo Papa Legba (Elegba Too) o addirittura ad uno dei personaggi di Mai Dire Goal di Fabio De Luigi (Baraldi’s Blues). La title-track è un esempio lampante: un arpeggio psichedelico che ricorda quasi The End dei Doors della chitarra di Alessandro “Kowalski” Di Vacri, una base di percussioni ipnotica offerta da Alejandro Garcìa Hernandez che gioca con la batteria di Giovanni “Sugo” Natoli, e la voce decisamente profonda e bluesy di Andrea “Wob” Facchin a commentare il tutto. Non c’è un bassista, il che aumenta il tono sperimentale del disco, evidente anche negli altri brani, spesso molto lunghi (si arriva agli undici e minuti e passa di Down In This Hole), dove il blues, anche quando è di struttura classica (Blues #1, Old Ford Car Blues, la cover di Big Road Blues di Tommy Johnson), trova comunque uno sviluppo strumentale molto variopinto e originale, con intermezzi di brani più lenti (Canadian Girl, No Man’s Land) o indiavolate danze di percussioni e acustiche (Dance of the Happy Liar Skull). Un disco che sorprende per maturità e originalità, e che serve a contraddire chi considera l’italian-blues un sottogenere di semplici seguaci, se non proprio meri fans, e non di artisti pensanti.


 


Daniele Faraotti
English Aphasia
[Creamcheese Records 2019]


File Under: Post-tutto

danielefaraotti.com

di Nicola Gervasini

Le nostre pagine non trattano di musica elettronica, eppure ci capita spesso di averci a che fare, perché gli anni 2000 hanno visto spesso matrimoni (a volte anche ben riusciti) tra “macchine” e “tradizione”. Per questo non abbiamo problemi a presentarvi questo English Aphasia del bolognese Daniele Faraotti, non un esordiente, visto che ha alle spalle già due album e due LP, ma che qui si spinge in una sperimentazione di suoni decisamente originale. Potremmo definirlo un post-rock che unisce elementi di ogni tipo, anche tradizionali e persino soul. La lunga title-track iniziale ad esempio è un tripudio di campionamenti e suoni elettronici con una parte cantata che potrebbe anche appartenere ai Wilco, che apre però la strada al coraggioso singolo I Got The Blues, che non è il pezzo dei Rolling Stones, ma è comunque una similare ballata soul con tanto di fiati e assolo di chitarra da acid-pop anni 60, resa però in maniera del tutto personale e distorta da un Faraotti sempre più sulle tracce di Beck e delle sue trovate in bilico tra i generi. E si prosegue con un tira e molla tra momenti elettronici come Connection, che quasi ricorda certi momenti pop di Steven Wilson, o brit-pop chitarristici come Between For A Day Trust (con un uso della voce quasi alla Bon Iver). E addirittura la parte centrale (Zawie III e Leonore Sprache) entra in una serie di rimandi al kraut-rock e al Bowie berlinese, prima di avere una Sea Elephant che capovolge di nuovo tutto entrando nel campo della indie italiana (è l’unico brano nella nostra lingua presente nel disco), prima di chiudere di nuovo più classicamente con una percussiva Telephone Line, e una Joni George Igor and Me che cerca invece influenze di musica orientale e sonorità vintage quasi alla Roy Harper. Tante strade, ma un risultato molto personale e da sviscerare con calma, per capire quanto ormai gli steccati tra generi non esistano quasi più.


 


<Credits>