Bastano anche solo i primi
trenta secondi dell’iniziale Black Love per capire come
il viaggio musicale di Massimiliano Larocca abbia ormai
preso strade ben diverse rispetto al folk degli esordi. Escludendo
il progetto dedicato al poeta Dino Campana (Un
mistero di sogni avverati), che fa storia a sé,
se il precedente Qualcuno
stanotte già si faceva scudo degli arrangiamenti
mai banali di Antonio Gramentieri aka Don Antonio (comunque in
session anche in questa occasione), qui addirittura troviamo Hugo
Race in regia, e il brano sopracitato, cantato in inglese,
altro non sembra che una sua canzone. E fa quindi un po’ impressione
all’inizio ascoltare Massimiliano cantare una delle sue classiche
composizioni come Cose che non cambiano su una base elettronica,
quasi da trip-hop anni 90, ma se nel precedente lavoro a volte
si sentiva un leggero slegamento tra la parte musicale e la parte
cantata, oggi il merito subito evidente di Race è quello di aver
reso la voce di Larocca perfettamente funzionale al suono utilizzato.
Hugo Race lavora spesso giocando di sottrazione, lasciando comunque
in primo piano la canzone quando non necessita di troppi interventi
(Il giardino dei salici) o "sovrastando" con
suoni e voci quando magari la melodia si fa semplice talking-blues
(Guerra fredda, con il piano di Howe Gelb, o Il regno,
con la voce di Giulia Millanta). Un mix di elettronica, chitarre
spesso distorte e atmosfere decisamente noir che tradisce il tocco
d’autore del regista, ma che Larocca sa riempire con un pugno
di canzoni convincenti che non smettono mai di tradire la loro
natura di folk-songs da leggere e riascoltare come (Eravamo)
Orfani, Si chiamava Lulù o Il cuore degli sconosciuti,
fino ad una curiosa ballata anni 60 come Fin Du Monde.
Qualcuno storcerà il naso per tanta “modernità”, ma Exit/Enfer
è il più classico “disco della maturità”.
Alberto
Mancinelli Tutto
l'amore che c'era [Alberto
Mancinelli 2018]
Inganna il tratto di copertina, che potrebbe
evocare lievità pop da cantautore contemporaneo, anche se il colore
rosso richiama l’intensità dei testi, sospesi fra pensieri d’amore
sofferto e un piglio esistenzialista. Tutto l’amore che
c’era è un disco che offre invece più dettagli al suo
ascolto, lontano dai luoghi comuni del generico indie d’autore
di moda, al crocevia fra una canzone folk rock ombrosa che guarda
ai maestri americani e una scrittura figlia semmai delle esperienze
“alternative” del rock italiano degli anni Novanta. Arriva da
lì la storia di questo musicista di origini siciliane, trasferitosi
da diverso tempo in Veneto, prima alla guida degli Electric Bayons,
con apparizioni tra festival e rassegne, poi con una serie di
lavori solisti, spesso all’insegna della totale indipendenza e
autoproduzione, prediligendo il gesto elettro-acustico e una contaminazione
con l’elettronica. Innegabile che Alberto Mancinelli giochi
finalmente la sua carta più ambiziosa con questo album, inciso
nella primavera del 2018 negli studi di Modigliana sotto la direzione
artistica di Antonio Gramentieri (Don Antonio) e con la collaborazione
di diversi ospiti, tra cui spiccano le percussioni di Denis Valentini
e la batteria di Piero Perelli, il violino di Vicky Brown e i
rintocchi di organo e synth di Nicola Peruch. Insieme offrono
l’abito sonoro più adatto per accompagnare la voce “svogliata”
e malinconica di Mancinelli, doppiata da Elisa Rodolfi nella suadente
apertura di Lentamente. I toni autunnali e languidi della
ballata colorano buona parte del repertorio, ma l’intreccio minimalista
degli arrangiamenti sostiene i dieci episodi, che si sfaldano
trasparenti ne Il gesto, sottilmente bluesati e notturni
in Corsia d’emergenza, scuri nel folk rock di Sirene
stonate e Farti male. Il finale di Da qualche parte
sfodera accenti dylaniani, che in collisione con il canto in lingua
italiana non possono non ricordare De Gregori.
Mr.
Wob And The Canes Not
Your Negro [Voodoo
Roots Stew 2019]
Oggi se scrivete la parola “negro”
in un social siete a rischio di censura, se non proprio di blocco,
e l’algoritmo spesso non bada al senso della frase ma al semplice
uso di un termine considerato (giustamente) non politically correct.
Ma in musica “fare musica da negri” si sa da sempre che è un complimento,
dato da ragioni storiche che fanno della black-music una delle componenti
fondamentali dell’arte del mondo occidentale. Lo sanno bene i veneziani
Mr. Wob And The Canes che con puro spirito antirazzista intitolano
Not Your Negro (si veda l'omonimo documentario su
James Baldwin, ndr) il loro terzo album, vero melting-pot
di influenze che chiamano “Voodoo Roots Stew” (spezzatino di radici
Voodoo), che vanno dal blues classico con il quale hanno esordito
nel 2014 grazie all’album Invitation To The Gathering, fino
a elementi latinoamericani o afro, come dimostrano negli omaggi
al Voodoo Papa Legba (Elegba Too) o addirittura ad uno dei
personaggi di Mai Dire Goal di Fabio De Luigi (Baraldi’s Blues).
La title-track è un esempio lampante: un arpeggio psichedelico che
ricorda quasi The End dei Doors della chitarra di Alessandro
“Kowalski” Di Vacri, una base di percussioni ipnotica offerta da
Alejandro Garcìa Hernandez che gioca con la batteria di Giovanni
“Sugo” Natoli, e la voce decisamente profonda e bluesy di Andrea
“Wob” Facchin a commentare il tutto. Non c’è un bassista, il che
aumenta il tono sperimentale del disco, evidente anche negli altri
brani, spesso molto lunghi (si arriva agli undici e minuti e passa
di Down In This Hole), dove il blues, anche quando è di struttura
classica (Blues #1, Old Ford Car Blues, la cover di
Big Road Blues di Tommy Johnson), trova comunque uno sviluppo
strumentale molto variopinto e originale, con intermezzi di brani
più lenti (Canadian Girl,No Man’s Land) o indiavolate
danze di percussioni e acustiche (Dance of the Happy Liar Skull).
Un disco che sorprende per maturità e originalità, e che serve a
contraddire chi considera l’italian-blues un sottogenere di semplici
seguaci, se non proprio meri fans, e non di artisti pensanti.
Daniele
Faraotti English
Aphasia [Creamcheese
Records 2019]
Le nostre pagine non trattano di musica elettronica,
eppure ci capita spesso di averci a che fare, perché gli anni 2000
hanno visto spesso matrimoni (a volte anche ben riusciti) tra “macchine”
e “tradizione”. Per questo non abbiamo problemi a presentarvi questo
English Aphasia del bolognese Daniele Faraotti,
non un esordiente, visto che ha alle spalle già due album e due
LP, ma che qui si spinge in una sperimentazione di suoni decisamente
originale. Potremmo definirlo un post-rock che unisce elementi di
ogni tipo, anche tradizionali e persino soul. La lunga title-track
iniziale ad esempio è un tripudio di campionamenti e suoni elettronici
con una parte cantata che potrebbe anche appartenere ai Wilco, che
apre però la strada al coraggioso singolo I Got The Blues,
che non è il pezzo dei Rolling Stones, ma è comunque una similare
ballata soul con tanto di fiati e assolo di chitarra da acid-pop
anni 60, resa però in maniera del tutto personale e distorta da
un Faraotti sempre più sulle tracce di Beck e delle sue trovate
in bilico tra i generi. E si prosegue con un tira e molla tra momenti
elettronici come Connection, che quasi ricorda certi momenti
pop di Steven Wilson, o brit-pop chitarristici come Between For
A Day Trust (con un uso della voce quasi alla Bon Iver). E addirittura
la parte centrale (Zawie III e Leonore Sprache) entra
in una serie di rimandi al kraut-rock e al Bowie berlinese, prima
di avere una Sea Elephant che capovolge di nuovo tutto entrando
nel campo della indie italiana (è l’unico brano nella nostra lingua
presente nel disco), prima di chiudere di nuovo più classicamente
con una percussiva Telephone Line, e una Joni George Igor
and Me che cerca invece influenze di musica orientale e sonorità
vintage quasi alla Roy Harper. Tante strade, ma un risultato molto
personale e da sviscerare con calma, per capire quanto ormai gli
steccati tra generi non esistano quasi più.