Sceglie una ballata dal tono
intimo e crepuscolare, il primo singolo Drive, per presentare
il suo nuovo album: è un cambio di registro significativo per
Leandro Diana, autore e chitarrista di origini siciliane ma
attivo sulla scena milanese, dalla quale arrivano anche i i numerosi
contributi al qui presente Bring It On, le cui tracce
base sono state incise presso l’Appartamento Sonoro di Ruben Minuto.
Terzo disco solista, se abbiamo fatto bene i conti, che segue
il più elettrico e stradaiolo Dirty
Hands and Gravel Roads, l’album segna il passaggio dall’impostazione
rock settantesca del precedente verso un cocktail di suggestioni
che oggi definiremmo Americana, lì dove le diverse passioni sonore
di Diana si incontrano e trovano una sintesi tra il country d’autore
di A Good Place to Start (tra le migliori, anche nell’interpretazione
vocale), l’heartland rock della stessa Bring It On, le
rurali vibrazioni gospel di Dirty Faces e quelle punteggiate
dal southern soul in I Was There. Ci guadagna in generale
lo spessore delle composizioni, rifinite con passione e piena
padronanza della materia da un manipolo di collaboratori tra i
quali spiccano i contributi di Luca Andrea Crippa alle chitarre
e lap steel, Andrea Palumbo all’armonica e Enrico "Ed The Blues
Baker" Damiani all’organo e pianoforte. Sette i brani originali,
nati tutti in un preciso periodo di tempo e per questo coerenti
nel seguire un filo roots&blues, ai quali si aggiungono due cover
perfettamente rivelatrici dell’educazione musicale del protagonista:
Crazy ‘bout an Automobile, piccante blues che attinge alle
sollecitazioni sudiste della versione che ne diede Ry Cooder,
e Train to Birmingham, languida ballata rootsy firmata
da John Hiatt. Ennesima conferma di un sottobosco di appassionati
musicisti italiani che nelle ultime stagioni hanno sempre più
acquisito confidenza con il linguaggio dell’american music, restituendolo
con personalità.
Pulin
& The Little Mice Friends
of Mice [Pulin & The Little Mice 2023]
Partiamo da alcuni dati: i Pulin & The
Little Mice sono in cinque, ma, se ho contato bene, la schiera
di ospiti che hanno contribuito alle quattordici tracce di questo
album conta 29 nomi, quasi una mega jam session in stile West
Coast 1967 più che una semplice seduta di registrazione. “We Believe
in old time music“ dichiarano dal loro sito, e lo dimostra anche
questo loro secondo album che sempre più sposta il focus dal blues
e dalla musica Americana tradizionale verso le origini delle terre
irlandesi. Quasi tutti i brani sono infatti dei medley di traditionals,
che uniscono standard sia americani che d’oltremanica con un effetto
del tutto unitario. Pensate ad un tour dei Chieftains a Nashville
(ascoltate Viola Lee Blues per esempio) e centrerete il
messaggio. L’impasto di voci creato dai cinque sa di Planxty vecchia
maniera d’altronde, così come piace l’alternarsi di molti strumenti
tradizionali. Tra gli invitati alla festa organizzata da Antonio
Capelli, Marco Crea, Giorgio Profetto, Matteo Profetto e Marcello
Scotto, non potevano mancare anche Max De Bernardi e Veronica
Sbergia che portano voci, chitarre e washboard nel medley Love
Will Ye Marry Me/The Cuckoo’s Nest/Viper Mad e Hammer Ring/John
of Badenyon/The Gravel Walks, e tra gli altri va citato il
contributo di Luca Bartolini, pare non solo come chitarrista,
ma anche in sede di “scelte incontestabili e definitive ad eccezione
quelle con cui non eravamo d’accordo”. Ne è uscito un divertente
bigino di tradizionali ormai fuori dal tempo ma incredibilmente
sempre richiesti ed attuali, sia per ballare vecchie gighe (Plains
of the Boyle/Good Ole Rebel/Kitty’s Wedding) che per farsi
venire la malinconia (Hanapepe Waltz/After The Ball/Vales des
Iles de la Madeleine o anche Ghost Woman Blues), fino
al quasi inevitabile finale affidato a Rocky Road to Dublin.
Da servire rigorosamente con pinta di Guinness.
Chitarrista ligure, attivo da anni nel progetto
folk dei Pulin and the Little Mice, Marco Crea si ritaglia
uno spazio solista con questa breve raccolta di dieci brani acustici,
mezz’ora scarsa di musica, che si ispirano a un suono bucolico
e tradizionale fin nelle ossa, ballate che ruotano attorno al
mondo delle roots americane e non solo, intrecciando sapori country
folk agresti, digressioni blues, coloriture irish, la stessa materia
che da sempre fa parte della sua ricerca musicale. Tales
for You è una dedica al figlio Davide e le canzoni stesse
raccolgono impressioni di vita quotidiana, riferimenti alla natura
e agli animali, con un linguaggio piano, confidenziale, che si
fonda sul binomio semplice tra chitarra acustica e voce, per poi
aggiungere piccoli dettagli strumentali a cura soprattutto di
Massimo Costamagna (dobro, weissenborn e lap steel). Aperto e
chiuso dallo strumentale C Dance, ballad dalle tonalità
western in minore, Tales for You vive di suggestioni riflesse
e di un innegabile amore per certe sonorità: la melodia di Carmelita
è accompagnata dal violino di Antonio Capelli ed è curiosamente
dedicata a un’asina, animale che sembra ricordare a Marco Crea
il giusto ritmo (perduto) del mondo; Alfo Ragtime Blues
dice già tutto nel titolo e fa emergere l’apporto musicale del
dobro, protagonista anche nell’accompagnamento di Redwood Street
e dell’ecologista In This Land, dove emerge un cantato
che ricorda certi giovani Dylan degli anni Settanta (in particolare
il dimenticato David Blue). Ecco, quello che manca ancora per
rendere del tutto personali queste canzoni, sul cui affetto per
le roots americane non vi è dubbio alcuno (la cadenzata Margotita,
dedica alla gatta domestica, ha il passo di una vecchia folk song
di Woody Guthrie) è proprio una maggiore convinzione dell’interprete
Marco Crea, che non sempre appare capace di scrollarsi di dosso
una certa devozione per i modelli di riferimento, o di portare
la voce in una direzione che sia in grado di soprendere.
Slidin'
Charlie & Boo Shake Slidin'
Charlie & Boo Shake [Ember
records 2023]
Incentrato esclusivamente sulle dinamiche
essenziali di chitarra e batteria, l’omonimo esordio di Slidin’
Charlie & Boo Shake presenta il duo blues palermitano alle
prese con un repertorio in gran parte originale (e questo è senza
dubbio l’elemento più positivo), nove brani firmati dalla coppia
e una sola cover, la conclusiva Bourgeois Blues di Leadbelly.
Carlo Pipitone (voce e chitarra) e Giuseppe Buscemi (batteria)
uniscono la passione per la materia a metà degli anni Duemila
e fanno il loro esordio ufficiale sui palchi nel 2011, portando
avanti anche una serie di partecipazioni a festival e rassegne
blues sul territorio italiano. Il tempo è dunque maturo per un
disco che riprende le intuizioni dei primi Black Keys e North
Mississippi Allstars, fondendo la tradizione del “blues delle
colline” di personaggi come RL Burnside e Junior Kimbrough con
l’irruenza del rock elettrico, senza dimenticare antesignani di
una certa “sporcizia” boogie come Hound Dog Taylor. Il suono è
collaudato, la formula conosciuta, tanto è vero che dalle prime
svisate della slide guitar in Try Me siamo proiettati in
atmosfere famigliari a chiunque abbia apprezzato il genere in
questi anni. La riprova giunge con l’andatura decisamente più
garage di Between You and Me e una Driving che mischia
la radice blues con un incedere rock alla Neil Young. L’intesa
fra Pipitone e Buscemi c’è tutta e dimostra il rodaggio dal vivo,
anche se resta l’impressione di una materia abbondantemente indagata
e che per la natura stessa dell’incisione, grezza e senza sovrastrutture,
nostra un po’ la corda sulla distanza. È un confine che Slidin’
Charlie & Boo Shake sono probabilmente consapevoli di non varcare:
ogni cosa è rimessa al groove e all’energia di episodi quali A
Long Time Ago e Once I Had a Girl, sebbene i passaggi
più coinvolgenti arrivino dalle trame rallentate e ipnotiche di
When You Got a Good Girl e Bad Thoughts, a metà
strada fra il Delta del Misssissippi e i club di Chicago.