L'intervista
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Quello che mi ha subito colpito di Ruby Shade è il suono: compatto,
diretto, una registrazione che lascia certo molto spazio all'energia
della band (uno dei vostri punti di forza) ma che è anche più curata
nella resa finale: come è stata la produzione di questo disco?
Volevamo un suono molto potente, siamo entrati in studio con le idee
ben chiare. Abbiamo curato tutto nei minimi dettagli e siamo molto soddisfatti
del risultato. Merito anche di un fonico esperto come Alessandro Castriota
che ci ha assistito durante il missaggio
Un disco molto lungo ma senza cedimenti o momenti di stanca: vista
l'alta qualità delle canzoni, le avete composte negli ultimi due anni,
dopo l'uscita di A better Place, o vengono in qualche modo da più lontano?
Sono state composte tutte in un momento successivo all'uscita di "A
better place" e provengono da una selezione di circa trenta pezzi. I
testi sono ricchi di riferimenti a certo songwriting americano: si parla
di viaggi, fughe verso il confine, città da dimenticare, rock'n'roll
band da fondare.
In questo senso quali sono le maggiori influenze, non solo tra i
cantautori, ma anche a livello letterario?
Le letture vanno da Kerouac a Bukowski, da Ginsberg a Mc Carthy e tutto
quello che riguarda gli indiani d'America. Tra i musicisti ho amato
i testi di Springsteen, di Bob Dylan, di Neil Young, di Lou Reed, di
Tom Waits, dei Green on Red, dei Dream Syndicate. Sono tutti di origine
americana, chiaro, credo comunque che i miei testi si possano riferire
a chiunque: parlano soprattutto di stati d'animo. Il tema centrale di
"Ruby shade" - così come in generale anche dei cd precedenti - è quello
della fuga. In quest'ultimo album però ho voluto evidenziare le sensazioni
di chi è all'ultima spiaggia, di chi ha una sola via d'uscita e a volte
riesce difficile trovare anche quella. Quali reazioni prova un evaso
braccato dalla polizia, un piccolo delinquente inseguito da una banda
di assassini? Che cosa sente un barbone accusato di un delitto che non
ha mai commesso, gettato in prigione nelll'indifferenza di tutti e nessuno
che alzi un dito per aiutarlo? Ti sei mai svegliato con la sensazione
che il posto in cui vivi sia popolato solo da zombi, da gente che è
morta e non lo sa? Questi sono alcuni degli argomenti e non credo che
possano essere definiti come tipicamente americani piuttosto che solo
europei. Credo siano temi universali.
In ballate come la stessa Ruby Shade o So Far Away avete aggiunto
un prezioso apporto dell'Hammond: questo sembra riportare alla mente
certo rock urbano degli anni settanta, dove la tua voce (a me ricorda
tremendamente Steve Wynn... e questo vale come un gran complimento per
il sottoscritto) si incastra alla perfezione. Ti ritrovi con queste
mie impressioni?
Beh, le nostre influenze non sono certo un mistero. Il nostro background
è quello a cui ti riferisci e non avrebbe senso negarlo. Anche se i
Cheap Wine ricercano comunque un suono personale, senza mai tentare
di ricalcare quello dei loro idoli. Penso infatti che tu possa trovare
decine di riferimenti a cui accostare il nostro sound, ma mai uno solo.
Perché appunto non vogliamo fare il verso a nessuno: è la nostra musica,
fino in fondo.
A proposito di Steve Wynn e Paisley Underground: la domanda ve l'avranno
fatta fino alla nausea, ma per un "adepto" del genere come il sottoscritto
è d'obbligo: quanto vi ha influenzato quella stagione musicale, visto
anche il nome della band? Non pensi sia stato un movimento di gruppi
oscuro e di nicchia che in realtà, col passare degli anni, ha disteso
i suoi influssi su tutto il nuovo roots rock americano?
L' influenza che ha avuto su di noi il Paisley Underground è notevole.
Non solo in senso musicale, ma anche nell'approccio. La semplicità con
cui queste band si proponevano, senza spocchia, senza il minimo atteggiamento
da rockstar. Inoltre, la fusione tra l'energia del punk e la melodia
del rock classico è partita da queste grandi band che, anche se non
hanno mai avuto un successo di massa, sono comunque state seguite da
un pubblico numeroso. La loro influenza sul roots rock e sulle sue diramazioni
è assolutamente indiscutibile e molto più estesa di quanto venga riconosciuto
dalla critica. Il nostro nome viene da una canzone dei Green on Red
perché abbiamo voluto rendere omaggio ad una band assolutamente grandiosa,
ad una canzone epocale e a Dan Stuart che io considero il più grande
autore-cantante degli ultimi vent'anni.
Il sound tutto rock'n'roll di Set Up a Rock'n'roll Band mi ha richiamato
moltissimo i Cracker: vi piacciono? Più in generale quali nuove bands
vi intrigano di più (non necessariamente quelle che più hanno influenzato
il vostro suono)?
I Cracker sono grandi e Gentleman's blues è uno dei dischi più belli
usciti negli ultimi due anni. Nuove bands? Tra quelli non di primissimo
pelo potrei citarti Black Crowes, Son Volt, Wallflowers, Jayhawks, Grant
Lee Buffalo. Tra i più "giovani" Gathering Field, Pinetops. Lo strepitoso
Kevin Salem di "Soma city". Terrell (che però tace da oltre due anni).
Ma sinceramente i due dischi più belli che ho ascoltato ultimamente
appartengono a due grandi vecchi: "Ecstasy" di Lou Reed e "Silver &
gold" di Neil Young.
Come ci si sente a proporre un certo tipo di rock in Italia, che,
diciamo la verità, non è mai andato per la maggiore? Vi sentite in qualche
modo parte di una piccola ma significativa realtà, che può comprendere
gruppi come voi, i Groovers o i Bluebonnets?
I maggiori ostacoli in Italia sono rappresentati dalla diffidenza del
pubblico e dalla "paura" che alcuni giornalisti mostrano quando sono
chiamati a dare un giudizio su una band italiana che suona rock. E'
singolare notare come nessuno abbia da contestare se un gruppo italiano
suona musica hip hop, rap o pop inglese - tutti generi non certo nati
nel nostro Paese - mentre se il punto di riferimento musicale è il rock
americano tutti mettono le mani avanti, dichiarando che una band italiana
fa fatica a reggere il confronto con i colleghi d'oltreoceano. Io sono
fermamente convinto del contrario: questo perché il rock è un linguaggio
ormai universale ed ha legami molto meno stretti con la sua terra d'origine
rispetto, ad esempio, al country, al delta blues o all'hip hop. I Cheap
Wine suonano rock perché sono cresciuti con quella musica, così come
è accaduto ad un ragazzo di Los Angeles o di Atlanta. Io a 13 anni ascoltavo
Springsteen, Bob Dylan e Neil Young, sono cresciuto con i Green on Red
e i Dream Syndicate, con Lou Reed e con il southern rock degli Allman
e degli Skynyrd, con i Rolling Stones e i Doors, con i Blasters e i
Del Fuegos. Sono andato a vedere centinaia di concerti di questa gente.
Quello che il nostro gruppo esprime viene da dentro. Nonostante questo
alcuni giornalisti mantengono un approccio molto cauto nei nostri confronti,
quasi avessero timore di accostarci alle band americane: le recensioni
sono sempre positive, ma l'atteggiamento di fondo è decisamente prudente.
Tutt'ora siamo considerati "emergenti", in verità siamo al terzo cd:
quanti dobbiamo realizzarne prima di essere considerati una realtà?
In fondo le riviste specializzate preferiscono incensare un album mediocre
di uno sconosciuto cantautore americano, piuttosto che spingere seriamente
una rock band italiana. Sembra quasi abbiano paura di "osare". Riescono
a dare credito a qualcuno solo quando intervengono vendite sostanziose:
in questo modo la validità di una band viene stabilita dal mercato.
Questo è assurdo, in quanto la critica musicale dovrebbe avere il compito
di giudicare il valore artistico senza preoccuparsi di tutto il resto.
Purtroppo questo atteggiamento rischia di frenare sul nascere le velleità
di tante ottime band italiane: questo è uno dei principali motivi per
cui non esiste una vera "scena" rock in Italia. Questo genere è in via
di estinzione. Ci sono i Cheap Wine, ci sono i Groovers, ci sono i Sattelite
Inn, ma i Bluebonnets si sono sciolti ed è un vero peccato perché erano
una band molto valida. Siamo in pochi, purtroppo, ma non molliamo. Il
rock'n'roll non gode di ottima salute, ma è ancora vivo. .
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