TRACKLIST:
1. This House
Is On Fire // 2. Motherland // 3. Saint Judas // 4. Put The Law On You // 5. Build
A Levee // 6. Golden Boy // 7. The Ballad Of Henry Darger // 8. The Worst Thing
// 9. Tell Yourself // 10. Just Can't Last // 11. Not In This Life // 12. I'm
Not Gonna Beg
File Under:
folk princess
di
Fabio Cerbone e Marco Denti
Famosa oramai per la sua parsimonia
discografica, che solo a livello superficiale potrebbe passare per una scarsa
ispirazione, Natalie Merchant ha sempre preferito la sostanza, anche profonda
e ricca di implicazioni di non sempre facile approccio, alla semplice produzione
di dischi. Sarà anche per questo che negli ultimi quindici anni ci ha regalato
solo quattro dischi ufficiali in studio, di cui uno per giunta infarcito di rivisitazioni
folk. Con il senno di poi ha tutte le ragioni dalla sua parte, a cominciare da
Motherland, picco artistico che all'alba degli anni duemila la vedeva
uscire dall'enfasi, persino un po' troppo artefatta, di Ophelia, il suo disco
più ambizioso e orchestrato, ma in buona parte anche irrisolto, per abbracciare
una svolta al tempo stesso tradizionale e progressista. Motherland è in fondo
la premessa a tutto quello che è venuto dopo (fino a giungere all'omonimo
album di qualche mese fa) e la sublimazione della sua prima parte
di carriera, un disco che fa risplendere il songwriting dell'autrice, dalla risacca
acustica della title track e dal brusco sapore di Saint' Judas verso le
brillantezze pop di Build Leeve e Just Can't Laste e le sinuose
movenze degli archi arabeggianti dell'iniziale This House Is on Fire, affinando
una voce ora più che mai sicura di osare (il falsetto straniante di Henry Darger
a rincorrere lo spirito di Sandy Denny, ad esempio, o la fragile Golden Boy).
Sull'archittetura strumentale di Motherland del resto c'è poco da aggiungere,
perché se è vero che non sono scomparse del tutto le orchestrazioni raffinate
e il coinvolgimento di numerosi musicisti, è altrettanto innegabile che la regia
accorta di T-Bone Burnett e qualche fidato intervento (Greg Leisz prima di tutto,
ma anche Van Dyke Parks e Erik Della Penna) restituiscono un carattere più fisico
alla musica della Merchant, mai così spronata dall'idea di bilanciare il passato
e il presente all'incrocio tra i linguaggi pop e folk. È anche per questo motivo
se Motherland rimane a quasi tredici anni dalla sua pubblicazione ufficiale uno
snodo centrale per la canzone d'autore americana: chiedete alle numerose colleghe
che hanno provato le stesse aspirazioni e non hanno ancora superato la maestra. (Fabio
Cerbone)
È il 9 settembre 2001 quando T-Bone Burnett e Nathalie Merchant
congedano muscisti, tecnici e collaboratori che hanno contribuito a incidere Motherland.
Manca qualche dettaglio, va sistemata la lunga lista di personalità femminili
che l'hanno ispirato, vanno rivisti tutti gli ultimi particolari di un lavoro
complesso e multiforme e che, arrivati in fondo al processo di produzione, sembrano
le uniche urgenze al mondo che contano. A risentire la melodia mediorientale di
This House's In Fire, e la stessa canzone, forse Nathalie Merchant intuisce,
ma non sa che in realtà la deadline di Motherland non è nulla rispetto a quella
che la civiltà occidentale deve affrontare, solo 48 ore dopo, proprio a New York.
Così, mentre le speranze del nuovo secolo finiscono vanificate in un cielo limpido
e sereno di una mattina di settembre, le parole di Motherland, quell'invocazione
alla "madre terra" che è diventata subito un classico, assumono a partire dalla
loro rara profondità, un significato straordinario. Basta opporre la (complessa)
idea linguistica di Motherland a quella riduttiva e brutale di Homeland, andata
in vigore da allora per capire il divario che l'11 settembre 2001 al di là della
folle crudeltà degli attentati, ha creato. Non solo, Motherland è persino profetico
se si pensa a Build a Leeve (e a quello che succederà a New Orleans qualche
anno dopo), ma ha tutta una sua grazia nell'offrire radici e speranze, a partire
dalla florida e agreste copertina. Il peso delle parole sarebbe insopportabile
in un contesto scarno o ripetitivo e anche da un punto di vista strettamente estetico,
Motherland riesce a contenere alla perfezione tutte le forme musicali in cui la
voce (unica) di Natalie Merchant sa muoversi, dal minimalismo folk/blues alle
più complesse orchestrazioni. T-Bone Burnett (senza dubbio) ha avuto un
ruolo determinante, ma è Natalie Merchant l'autrice e l'interprete che anticipa,
legge, riflette e mostra in controluce lo spirito caotico dei nostri tempi, nei
modi che solo la grande arte permette. Un capolavoro. (Marco Denti)