A Massimiliano, che conosco da
sempre, che da sempre mi conosce.
"Il genio dimenticato del
pop", "la leggenda nascosta del rock chitarristico",
"il padrino del power-pop": sono solo alcune delle
definizioni che accompagnano il lavoro di Tommy
Keene, uno degli artigiani più efficaci e coerenti
nell'arte difficile di combinare, nei pochi minuti
di una canzone, grovigli trascinanti di linee melodiche,
batterie infuriate, armonie vocali, chitarre brucianti
e vocazione innodica. Siccosme anche leggende, geni
dimenticati e padrini vari hanno bisogno, di tanto
in tanto, di essere rispolverati con affetto, e
siccome la fama dell'artista continua a essere,
rispetto all'incrollabile costanza del suo registro
di stile, vergognosamente modesta, proviamo a fornire
un piccolo contributo a una causa mai abbastanza
perorata. E, più che con un articolo, lo facciamo
(meglio dirlo subito) con una lettera d'amore.
A cura di Gianfranco Callieri
::
Il ritratto
"Il
cinema è il figlio prediletto delle metropoli: nasce
a fine '800, nello stesso periodo in cui sorgono
le prime città. Tutti e due crescono insieme, parallelamente.
Il cinema, oggi, riflette meglio di qualsiasi altra
forma d'arte la metropoli e i suoi abitanti": così
dice Wim Wenders, nella seconda metà degli anni
Settanta, e non ci sono parole più appropriate per
sintetizzare quanto il cinema abbia saputo restituire,
trasfigurandoli in un vortice di visioni, l'anima
contorta, solitaria e nevrotica delle città, il
loro universo di segni chiusi, l'incomunicabilità
e il romanticismo, i racconti sordidi delle strade
e l'orizzonte frastagliato delle skyline fatte di
grattacieli, palazzi, fumo di sigaretta, gas di
scarico. La riflessione di Wenders nasce quando
il regista tedesco dirige la trilogia "on the road"
composta da Alice Nelle Città (1973), Falso Movimento
('75) e Nel Corso Del Tempo ('76), pellicole che
affrontano non solo argomenti legati al senso del
raccontare per immagini e al significato del viaggio,
nel contesto frustrante e alienato dell'epoca occasione
di semplici fughe e non di cambiamento, ma anche
il problema della rappresentazione visiva di una
città, questione forse scontata per un americano
cresciuto in una grande metropoli e nondimeno ancora
rilevante, ancora in parte da risolvere, per un
cineasta europeo.
Nella figura del giornalista Philippe Winter (interpretato
da Rüdiger Vogler) protagonista del primo film,
un uomo in crisi, incaricato di confezionare un
libro sul paesaggio americano che riuscirà a portare
a termine solo ricorrendo alle istantanee di una
vecchia Polaroid e alla frammentazione impressionista
(mai neutra) del dispositivo fotografico, c'è senz'altro
lo stesso Wenders, intento a "ricreare" la vita
attraverso il cinema, l'esperienza e il movimento
anziché limitarsi a contemplarla, e c'è anche, qualche
anno dopo, Tommy Keene, nato nel Maryland,
adolescente a Washington e infine adulto a Los Angeles,
uno di quei (grandi) artisti il cui gesto ruota
ossessivamente intorno a un unico concetto ogni
volta approfondito, sviscerato, sezionato, amplificato.
Nel caso di Keene si parla della traduzione di una
solitudine dolorosa e insuperabile tramite l'equilibrio
esplosivo di Beatles (per le melodie), The Who (per
la violenza serrata dell'espressione) e Stones (per
la crudezza senza compromessi dell'idea di suono):
anche lui, similmente al Winter di Alice Nelle Città,
è sempre consapevole di come, non sapendo, non potendo
o non volendo accettare fino in fondo i compromessi
del vivere, per esorcizzare le umiliazioni della
vita non restino che suoni, immagini, racconti.
Tommy Keene non elabora dischi, immagina film: se
guardate i titoli dei suoi album, in ciascuno, dall'esplicito
"canzoni dal film" al più sottile "basato su tempi
felici" (dove alla formula di rito "basato su una
storia vera" si sostituisce l'evocazione di un tempo
mitico, forse mai esistito se non nell'immaginazione
dell'artista), dal "party dell'isolamento" a "dietro
il corteo", troverete l'evocazione di una distanza,
come quella posta da un regista, con il diaframma
della macchina da presa, fra i propri sentimenti
e la realtà.
Per questo Tommy Keene è uno degli artisti più integri
e puri degli ultimi trent'anni, perché nonostante
la (relativa) semplicità del suo approccio sonoro,
la sua è una musica profondamente intellettuale,
appunto distaccata, che basa tutto sull'idea di
autore senza concedere spazio al naturalismo o all'improvvisazione.
Tant'è che i suoi primi lavori, incentrati soprattutto
sulla straordinaria unità di stile del suono (guitar-pop
teso e frastornante, figlio bastardo e orgoglioso
di una trinità composta dal romanticismo di Bruce
Springsteen, dall'inventiva di Paul McCartney e
dalle rasoiate epilettiche dell'esordiente Elvis
Costello), prescindono addirittura dal ricorso ai
testi, nella fase introduttiva sostituiti da schizzi
inafferrabili di logorrea beat al limite della comprensibilità.
Keene parte di sicuro dagli anni '70 di Raspberries
e Big Star, e difatti nel magnifico Places That
Are Gone, uno dei suoi primi ep, si trova Hey!
Little Child, versione cristallina, di purezza sanguinante,
di uno dei pezzi più torbidi di Alex "LX" Chilton
(sta su Like Flies On Sherbert ['79], debutto solista
del cantante e compositore di Box Tops e Big Star),
ovvero la scoperta del sesso da parte di due ragazzi,
con una "lei" probabilmente minorenne (alla quale
il compagno chiede se la può "accompagnare a casa
da scuola") e la trasfigurazione della verginità
nel rock'n'roll ("Rock'n'roll is here to stay /
Come inside where it's okay / And I'll shake you"),
ripresa da Keene come se si trattasse di un canto
gregoriano in versione power-pop. Ma anche negli
episodi più lirici di tutto il pop con chitarre
venuto dopo, nei dB's, negli Shoes o nelle pur toccanti
vignette commemorative di Marshall Crenshaw, nella
dolcezza byrdsiana dei Game Theory di Real Nighttime
('85), nel surf'n'roll stagionato dei Velvet Crush
o nel perenne tormento esistenziale di Paul Westerberg
e dei suoi Replacements (con gli ultimi due il nostro
ha anche lavorato, in tour, abbastanza spesso),
non si riscontra nulla di simile all'acume freddo
di Keene, invariabilmente attaccato alla rappresentazione
di un mondo tutto mentale, dove i suoni nascondono
invece di rivelare.
Un mondo costruito sulle sei corde e sul loro significato
metaforico all'interno della cultura americana:
da Duane Eddy in poi, un destino di rabbia e disincanto,
di esclusione, in cui la messinscena (e cioè il
suono) inghiotte la narrazione (ovvero le canzoni)
per trovare un registro irripetibile, dagli altri,
ma modulabile all'infinito da Tommy Keene,
dedito con perseveranza assoluta all'esplorazione
di un personaggio ideale che è quello del rocker
uncool perché sconosciuto e sconfitto dall'indecenza
dei tempi, come da definizione di Lester Bangs,
e proprio per questo in grado di dire tutto, le
voragini dell'isolamento, la purezza imprevedibile
e malinconica degli amori, la sofferenza atroce
delle speranze perdute, la cupezza delle città di
notte, i giri a vuoto intorno alla precarietà del
lavoro, le tragedie qualunque, il vagare inebetiti
fra le ansie nostre e degli altri, il lento soccombere
ai margini delle correnti dominanti, grazie soltanto
alla furiosa sovrapposizione di voci e chitarre,
perennemente configurate con grazia incazzata, tanto
bambinesca quanto disarmante.
Non è mai cambiato, il suono di Keene, perché nasce
perfetto, sensibile alla cultura pop, certo, ma
soprattutto consapevole, già attrezzato con un ragionamento
implicito circa la propria natura. Organizzato su
di una massiccia stratificazione di chitarre in
overdub, una fonosfera di cemento dove gli uni sopra
gli altri si schiantano i carrelli di note di Lindsay
Buckingham (Fleetwood Mac) e le pennate dure, ironiche
e cattive di James Honeyman-Scott (Pretenders),
due ulteriori teorici dell'accumulazione sonora
(quando i brani sbandano verso la psichedelia, evento
raro ma non impossibile, entra allora in gioco l'algebrica
spigolosità di Tom Verlaine), a implementare una
sezione ritmica invariabilmente registrata live
in studio, il suono di Keene può variare in parte
la metodica degli arrangiamenti, mentre non può
in alcun modo fare a meno dell'alta intensità del
drive e della frequenza assillante dei power-chords
- gli intervalli di più suoni eseguiti in simultanea
e talvolta raddoppiati - alla Link Wray. La linearità
e la pulizia intrinseche a un simile sistema di
scrittura rappresentano anche la premessa attraverso
la quale i pezzi di Keene possono rivelare, all'ascolto,
la propria concretezza, ma senza sovrastrutture,
senza intralci alla pienezza del suono, solo con
la tecnica a completo servizio dell'emozione.
Tutta questa coerenza, tutto questo rifiutare qualsiasi
compromesso in nome del candore e dell'innocenza
del rock'n'roll da contrapporre in modo frontale
alla mostruosità del quotidiano, non è stata ovviamente
di grande aiuto alle fortune commerciali del nostro,
da sempre e per sempre confinato al rango di eroe
di culto per chi ne condivide l'eterno rimpianto
("gone", andato, è del resto la parola forse più
ricorrente nella sua produzione), per chi riesce
a abbracciarne la totale soggettività, per chi riesce
a coglierne e decifrarne l'acuminata ricercatezza
estetica. È talmente risolto e compiuto, il songwriting
di Keene, da rendere pressoché ozioso l'esercizio
del disco dal vivo, e difatti l'unico pubblicato
dai primi Ottanta a oggi, Showtunes: The Live
Album, benché divertente e apprezzabile nel
suo intento di celebrare un'umoristica commemorazione
per i soliti happy few, ribadisce quanto già estrinsecato
nei corrispettivi di studio senza un briciolo di
efficienza in più. A Keene, del resto, non interessa
eccitare gli spettatori di un concerto dal vivo
o gli ascoltatori di un disco, bensì rapire gli
avventori delle sue opere in un mondo parallelo,
senz'altro alternativo, inevitabilmente downbeat,
i cui personaggi possono singhiozzare frasi come
"Non so perché sono qui / So solo di essere distrutto"
(in originale "fucked-up", da Warren In The '60s)
senza risultare stucchevoli e gli assoli di chitarra
possono andare avanti anche per più di tre minuti
(ascoltate Driving Down The Road In My Mind,
dal sottovalutato, anche dal sottoscritto su queste
stesse pagine!, Crashing The Ether) senza un'ombra
di artificio, anzi, con tutta l'urgenza e la disperazione
di chi deve inventarsi una vita sul manico per sopportare
la propria.
Mai e poi mai Keene, se non negli sporadici video
(tutti molto autoironici), riderebbe di se stesso:
nell'angosciante incertezza culturale della contemporaneità,
il r'n'r, pur con tutto il suo istintivo bisogno
di complicità con gli ascoltatori, è una cosa troppo
importante per essere lasciata nelle mani di chi
ha paura di difendere a spada tratta i propri sogni
e le proprie idee. "Piantala di innamorarti / Di
chiunque ti deluda", canta Keene in Nothing Can
Change You (brano tra l'altro ripreso persino
dai Goo Goo Dolls), e naturalmente ha ragione lui:
innamoriamoci di chi ha saputo sacrificare una carriera
per inseguire la propria cultura e raccontarla al
mondo, innamoriamoci di chi non ha mai smesso di
sezionare e ferire le pieghe più intime del nostro
rapporto con il rock. Di chi ha continuato a gridare
al mondo la vecchia offesa del bimbetto solo, abbandonato,
emozionato e confuso, il quale, essendo la sua memoria
un lutto, non può non costruire con pignoleria e
amarezza sconsiderata una mitologia musicale di
sentimenti estremi. Innamoriamoci di Tommy Keene.
::
Il capolavoro
Songs From The Film
[Geffen, 1986]
1. Places That Are Gone // 2. In Our Lives // 3. Listen To Me // 4. Paper Words
And Lies // 5. Gold Town // 6. Kill Your Sons // 7. Call On Me // 8. As Life Goes
By // 9. My Mother Looked Like Marylin Monroe // 10. Underworld // 11. Astronomy
// 12. The Story Ends
Ma come,
si chiederanno i proseliti del soggetto, perché Songs From The Film,
l'album del compromesso artistico, nel ruolo di capolavoro e non il successivo
Based On Happy Times, inserito anche da questa piattaforma fra gli album più belli
degli anni '80? Ai neofiti, sperando di trovarli sufficientemente interessati,
andrà allora detto che sì, la stesura primigenia del disco, prodotta da T-Bone
Burnett e Don Dixon (cinque pezzi di quelle sessions risorgeranno dopo pochi mesi
nel 12'' Run Now), è stata in effetti scartata dalla Geffen (sotto la minaccia
di non chiudere il contratto di distribuzione nel caso l'artista avesse pubblicato
l'opera senza opportune modifiche), ma il sostituto di costoro, Geoff Emerick,
oltre a non essere un carneade (Beatles, Zombies e Costello nel suo carnet), è
altresì riuscito a trasformare il suono ovattato, poco dinamico e un po' patinato
del periodo in un'occasione irripetibile per rievocare vibrazioni e ricordi d'altri
tempi, un cristallo di sensazioni e percezioni fra una versione drogata dei Records
e una nostalgica e incredibilmente triste dei Plimsouls del secondo album.
Keene,
all'epoca, proviene da una breve esperienza da batterista nelle fila dei Blue
Steel e da un impiego poco soddisfacente di chitarra solista per band dell'area
di Washington come Rage e Razz (assieme agli Slickee Boys, il miglior grupo di
zona DC alla fine del decennio precedente), nonché da un primo album solista mai
digerito fino in fondo e da una serie di ep da grado zero del pop-rock, libertà
assoluta, frontline ruvida di chitarre e la strepitosa capacità di fondere Beatles,
Raspberries, Big Star, Who e Stones nel perimetro di un universo poetico costruito
sul desiderio assoluto di resistenza underground. Teorico e sontuoso come pochi,
artefice incontrastato di brani simili a fragorosi riassunti di mille outsiders
sprofondati nell'oblio, poeta della glorificazione e della canonizzazione del
r'n'r allorché questi precipita nell'irrilevanza culturale, dalle cui secche Keene
lo solleva con gesto di toccante, affettuosa riconoscenza, Songs From The Film
diventa una favola in reverse, la cronaca di un fallimento artistico che affronta
il proprio viaggio terminale attraverso melodie beatlesiane e impennate elettriche
cavernose, notturne, impressionanti con fatalismo irripetibile, tanto più struggente
e definitivo quanto più consapevole di un suicidio commerciale annunciato.
Per
tutto il disco Keene mugugna e sibila con la sprezzatura di un Alex Chilton, o
il cupo distacco di Lou Reed (omaggiato da una poderosa rilettura di Kill Your
Sons), anthem immediati, anfetaminici e fuori dal tempo, ciascuno di essi
affogato in un wall of sound di chitarre byrdsiane, jingle-jangle come avrebbero
potuto pensarlo dei REM urbani, deviazioni all'insegna di un convulso folk elettrico,
qualche traccia del mix oppiaceo di John Agnello e Bob Clearmountain, il basso
sfrecciante di Ted Niceley e i tamburi sfibrati, rigidi, diretti come una fucilata
di Doug Tull. Ci sono le bordate di pura energia adolescenziale (Gold
Town, In Our Lives) e le pennellate nostalgiche, come provenienti
da una capsula spazio-temporale, di Places That Are Gone
e The Story Ends (due brani che
non avrebbero sfigurato su Revolver), la malinconia melodrammatica di As Life
Goes By e lo sconquasso al rallentatore di Paper
Words And Lies, con gli assoli forse più "gonfi" e forsennati della
carriera dall'artista, il beat sparato, marziale e poi sospeso in una bolla di
refrain byrdsiano della deliziosa My Mother Looked Like
Marylin Monroe e i folk-rock acquatico di Underworld; c'è, più
di ogni altra cosa, la terribile coscienza di uno spreco di vita e risorse - la
cognizione di trovarsi in pieno tracollo, fuori da tutto, da qualsiasi moda e
qualsiasi possibilità - che potete apprezzare solo se, come nel caso di Primal
Scream e altri (rari) artisti sintonizzati su di una radio interiore bloccata
sul 1979, del rock'n'roll amate la grandezza e, ancora di più, i naufragi. La
citazione implicita nel titolo di Songs From The Film viene dai Beatles di A Hard
Day's Night, ovvio o quasi, ma qui c'è la colonna sonora di chiunque si sia mai
aggrappato a una chitarra o a un film anche solo per tornare a respirare, continuare
a sentire tutto, in una parola sola sopravvivere.
::
Dischi essenziali
Based On Happy Times [Geffen, 1989]
Dopo
l'accoglienza tiepidissima (per non dire inesistente) riservata a Songs From The
Film da critica e acquirenti, nel 1988 Keene cambia tutti i suoi musicisti,
si trasferisce a Los Angeles, riesce infine a convincere la Geffen, non si sa
come, a finanziare due settimane di registrazione presso gli Ardent Studios di
Memphis, sotto la supervisione di Joe Hardy (che si occupa anche di basso e organo
mentre John Hampton picchia sui tamburi). Ne risulta Based On Happy Times,
il disco più cupo del catalogo keeniano, appena rischiarato dalla presenza premurosa
di colleghi quali Jules Shear (coautore di una When Our
Vows Break dolente eppure tirata, e della voluttuosa scarica rock di
If We Run Away) e Peter Buck dei REM (mandolino sulla conclusiva A
Way Out, un'accorata meditazione sul suicidio, e responsabile della
sei corde glam sull'incredibile versione alla T.Rex di Our Car Club dei Beach
Boys). In mezzo alle violente coltellate urbane di Light
Of Love e al melodramma per chitarre scorticate della rocciosa Nothing
Can Change You, Keene continua a pensare per film immaginari i cui
fotogrammi, questa volta, scorrono con strazio e dolcezza nella ballata This
Could Be Fiction, squarciata da una pudica outro di archi alla maniera
dei Replacements di Sadly Beautiful e altri capolavori del disamore, della perdita,
della lacerazione insistita e inevitabile. La voce di Keene, nasale e monocorde,
non è mai stata così simile a quella di Tom Petty, i brani mai così limitrofi
a un matrimonio fra i 'Mats della seconda fase e i Soul Asylum (ascoltate il randellare
duro e mid-tempo di Highwire Days), fra il
blue-collar pop della East Coast e il post-punk melodico delle pianure industriali
del Minnesota e del Maryland. I "tempi felici" evocati dalla title-track, i tempi
dei viaggi estivi, delle automobili scassate ma affidabili cui consegnare i desideri
di evasione e redenzione, esistono ormai solo al cinema. Where Have All Your
Friends Gone?, si chiede a un certo punto Tommy Keene. Per aiutarvi a trovare
la risposta vi dico solo che la canzone è ambientata in un cimitero.
Behind The Parade [Second Motion, 2011]
Forte
di una ritrovata costanza discografica (tre album in cinque anni rappresentato,
per i suoi tempi bradipici, un record assoluto) e di una mai dissolta felicità
di scrittura, Tommy Keene festeggia trenta e rotti anni di carriera con
uno dei suoi lavori più belli e compatti. A parte l'intermezzo per tastiere vintage
della spiazzante La Castana e l'amarognolo retrogusto ottantesco di Lies
In My Heart, recuperata solo oggi ma composta più di vent'anni prima,
Behind The Parade riassume, assembla, centrifuga e risputa con
testardaggine impetuosa e una valanga di chitarre taglienti tutti i motivi per
i quali è impossibile non amare l'artista: il rispetto incondizionato per la proprie
radici culturali (nel power-pop rutilante di Running
For Your Life e Already Made Up Your Mind),
il tentativo di suonare ogni volta più estremo e ultimativo (nella devastante
title-track, una bomba di fragore), l'esplicito taglio operaio (evidente nella
raccolta elegia di Factory Town), il frastuono
chitarristico (ascoltate, nell'epica The Long Goodbye,
cosa può un uomo armato di Telecaster), le strizzate d'occhio al passato (occhio
alla tromba surreale e un po' amareggiata che dona smalto nostalgico all'altrimenti
trascinante Deep Six Saturday), l'immancabile omaggio all'estro geniale
dei Big Star (principali ispiratori del sublime intrecciarsi di chitarre a sei
e dodici corde nell'appuntita Nowhere Drag).
Quaranta minuti senza un solo secondo da buttare (La Castana, di fatto, altro
non è se non una cesura volutamente assurda fra la prima e la seconda parte dell'album),
quaranta ulteriori ragioni per risarcire ogni insicurezza, sociale, personale,
esistenziale e sentirsi quaranta volte al riparo da rimorsi e paure. A questo
servono i dischi, no?
::
Il resto
Strange Alliance [Avenue, 1981] Nelle
note di Tommy Keene You Hear Me, sontuosa raccolta di tutto il suo materiale
migliore, il titolare spiega di non aver voluto inserire alcun brano dal suo disco
d'esordio, appunto questo Strange Alliance, perché ancora oggi lo
considera "crap", merda. Da un lato il giudizio, pur ingeneroso, si può capire:
i nove brani dell'album, molto influenzati dalla new-wave e da un suono di chitarra
che porterà maggior fortuna agli U2, non sono in effetti granché rappresentativi
del futuro stile Keene. Ma ciò non significa che All
The Way Around (forse l'unica canzone di Keene arrangiata sul pianoforte),
il vetroso incedere alla Police di Landscape o il gancio melodico di I
Can't See You Anymore, siano da buttare, soprattutto se consideriamo
il periodo, per Keene pieno di impegni e indecisione stilistica. Difatti il lavoro
assomiglia a una via di mezzo fra la new-wave piaciona di Suzanne Fellini (un
unico album omonimo, su Casablanca, nel 1980 e una piccola hit, Love On The Phone,
dedicata a sesso e telefonia), con la quale Keene aveva suonato in un tour europeo
prima di formare un gruppo, a New York, col batterista di David Johansen, Frankie
LaRocka (i Pieces, vissuti poco e senza un'incisione ufficiale), e il pop'n'roll
più oscuro del decennio precedente. Tuttavia, la ristampa dell'album, un anno
dopo, esce con l'aggiunta del singolo Back To Zero Now
(tra l'altro ristampato per il Record Store Day di quest'anno), ovvero la più
bella canzone del catalogo di Tommy Keene, handclaps, batteria schizzata e chitarre
che sgusciano dappertutto per un capolavoro assoluto di seduzione pop, delusione
sublimata e cuori spezzati in cerca di guarigione. Nel maggio del 1981, poi, Keene,
servendosi della sezione ritmica dei Razz, registra al Track Recorder di Silver
Springs, MD, altre cinque canzoni: due, Strange Alliance e The Heart's
A Lonely Place To Hide, finiscono su Connected, un'antologia di gruppi della
zona di Washington uscita su Limp Records nello stesso anno e mai più ristampata
da allora, le restanti tre, cui si sono aggiunti nel frattempo altri due demo,
circolano su una C7 promozionale. Tanta carne al fuoco, insomma, in attesa di
un'imminente finalizzazione.
Ten Years After [Matador, 1996] Isolation
Party [Matador, 1998]
Un
tour come chitarrista dei Velvet Crush (lo potete ascoltare nel live Rock Concert,
Action Musik, 2000, invero un po' deludente) fa tornare a Keene la voglia di chiudersi
in studio e registrare di nuovo. Ten Years After è un grande, benché
al solito ignorato, ritorno sulle scene, basso, batteria, chitarre e una tonnellata
di energia per rimettersi in sesto e propiziare l'heavy-pop quasi metallico di
We Started Over Again e Turning
On Blue, la malinconica zingarata folkie di You Can't Wait For Time,
un'autentica dichiarazione di guerra al conformismo imperante della musica popolare
(Compromise), rockacci alla Ramones (Going Out
Again, Your Heart Beats Alone), dichiarazioni d'amore e disperazione
con tutta la sbrindellata poesia westerberghiana di cui Keene è capace (If
You'Re Getting Married Tonight, da piangerci sopra), omaggi incrociati
a Tom Petty e Peter Case (Before The Lights Go Out,
memorabile). Lo strappo di chitarre distorte nel finale, celebrato con il minuto
e mezzo di cavalcata punk della conclusiva It's Not True, anticipa la carica
incendiaria, la forsennata grinta elettrica del successivo, altrettanto buono
Isolation Party, il suo disco più hard (come certifica la tonante
ripresa dei Mission Of Burma di Einstein's Day). Orecchiabile e granitico
al tempo stesso, l'album conferma la fissità e la costanza, l'impatto quasi trascendente
della musica di Keene, un eterno ritorno a se stesso e alle proprie passioni ogni
volta interpretato con la foga di un adolescente. The
World Outside fa flirtare armonie vocali e strati di chitarre con dolcezza
celestiale, Long Time Missing e Getting Out From
Under You uniscono tempeste di power-chords e vocazione stradaiola,
Take Me Back è la ballata ruvida e scostante. Registrato negli Zion Studos
di New York, di proprietà degli Shoes, Isolation Party, fatta salva l'occasionale
esplosione di volumi, è esattamente identico a tutti gli album di studio firmati
Tommy Keene che l'hanno preceduto o seguito. Quindi indispensabile.
The Merry-Go-Round
Broke Down [SpinART, 2002] Crashing The Ether Eleven [Eleven Thirty,
2007] In
The Late Bright [Second Motion, 2009] Archiviata
l'esperienza, deludente per gli avventori casuali, del live Showtunes, Keene si
barrica in sala di registrazione con la fidata sezione ritmica degli ultimi album,
Jay Bennett dei Wilco, il collega cantautore Adam Schmitt e il frontman dei Gin
Blossoms, Robin Wilson, per dare vita a The Merry-Go-Round Broke Down,
il suo album più ambizioso nonché, sfortunatamente, il meno bello. Non perché
siano brutte le canzoni. Ce ne sono anzi di bellissime, dall'epica Big
Blue Sky alla sbrindellata, toccante The Man
Without A Soul (da confrontare con l'altrettanto accorata e romantica
Man Without Ties di Paul Westerberg). Si tratta però del primo e per fortuna unico
lavoro in cui Keene, anziché affidarsi all'evidenza icastica del suono, alla risultanza
lampante della devozione a un certo tipo di musica, prova invece a spiegare se
stesso attraverso i brani: così, i 16 e passa minuti di The Final Hour,
in pratica uno stiracchiamento snervante del gesto altrimenti conciso dell'artista,
tutto all'insegna di repentini stop&go e rasoiate di sei corde, diventano una
specie di meta-canzone dove Keene, un po' come in tutto l'album, sceglie la didascalia,
la divulgazione esplicita, la didattica autoreferenziale invece dell'ingenuità
e dell'immediatezza. Per il successivo Crashing The Ether bisogna
aspettare cinque anni ma ne vale la pena, perché ci riconsegna un Keene sognante
e assoluto, di nuovo assorto nella scombussolante arcadia rock dei propri pensieri.
Stavolta l'artista realizza tutto da solo, facendosi aiutare soltanto dal drumming
basico e singhiozzante di John Richardson, eppure, a giudicare dal quantitativo
di rumore sprigionato dalla scaletta, davvero non si direbbe. Guitar-pop anfetaminico
e dal cuore sfasciato, in certi casi persino ipnotico grazie alla densità strutturale
degli intrecci chitarristici (provate a sentire in sequenza Alta Loma e
Texas Tower #4), in altri frangenti comunque
dinamico e visionario nel mescolare Stones e punk raffreddato (Black
& White New York, magnifica), schianti garage e melodie folk (Quit
That Scene), roots-rock e tamburi schizoidi (I've
Heard That Wind Blow Before), speranze e rimorsi (Lives Become Lies),
assoli a profusione e percussioni demoniache (Eyes Of
Youth). Allo stesso livello, solo due anni dopo, quell'ode alle notti,
alle luci e all'asfalto delle metropoli che risponde al nome di In The Late
Bright, disco di atmosfere e di visionaria trance rockista, con uno dei
rari strumentali della storia di Keene (Elevated,
sinistra e grandiosa) e alcuni fra i capitoli più martellanti del suo repertorio,
come Goodbye Jane e The Right Time To Fly,
quest'ultima omaggio definitivo e probabilmente irripetibile ai vortici di suono
creati dall'adorato Townshend. Date fuoco ai ricordi sul piano di Nighttime
Crime Scene, cacciate indietro il magone sullo schema elettroacustico di A
Secret Life Of Stories o lasciatevi andare sui ruggiti jingle-jangle
di Save This Harmony e Realize Your Mind,
e capirete perché all'arte minoritaria ma fondamentale di questo musicista è impossibile
e impensabile rinunciare.
::
Riepilogo (discografia)
Strange Alliance (Avenue, 1981)
7 Songs From The Film (Geffen, 1986)
9 Based On Happy Times (Geffen, 1989)
8.5 The Real Underground (Alias, 1993)
9 Ten Years After (Matador, 1996)
7.5 Isolation Party (Matador, 1998)
7.5 Showtunes: The Live Album (Parasol, 2000)
7 The
Merry-Go-Round Brokedown (SpinART, 2002)
6.5 Crashing The Ether (Eleven Thirty, 2007)
7.5 In
The Late Bright (Second Motion, 2009)
7.5 Behind The Parade (Second Motion, 2011)
8
Riassunta
per sommi capi una discografia non sterminata e nonostante questo un po' schizofrenica,
bisognerebbe trovare il coraggio (forse la puzza sotto il naso) per assegnare
due 10 tondi tondi (è del resto il voto che meritano) agli ep Places That
Are Gone e Back Again (Try…), usciti entrambi su etichetta
Dolphin nel 1984, perché saranno anche oggetti da iniziati, fanatici e collezionisti
maniacali del nostro, ma rappresentano l'essenza dell'artista e della sua musica
distillata in pochi minuti (20 e rotti minuti nel primo caso, poco meno di 14
nel secondo, comprese una sferzante riduzione della stonesiana When The Whip
Comes Down e una trasfigurazione assai poppy di All I Want Is You dei
Roxy Music) secchi e travolgenti come dev'esserlo ogni classico riconosciuto del
power-pop. A trarre d'impiccio, grazie al dio dei rocker sfigati e dei loro seguaci
più sfigati ancora, ci ha pensato la piccola Alias - l'etichetta californiana
di Yo La Tengo, American Music Club, Game Theory etc. - con l'antologico The
Real Underground, compendio, purtroppo incompleto, dei suddetti ep targato
1993, integrato tramite la title-track di un altro extended (Sleeping On A
Roller Coaster, Matador, 1992, dove naturalmente, tanto per complicare le
cose, la suddetta canzone non compariva…) e arricchito da vari demo registrati
(nonché da alcune splendide cover: Tattoo degli Who e Shake Some Action
dei Flamin' Groovies) nel decennio tra il 1982 e l'anno precedente la pubblicazione
dell'album (del quale esiste pure una versione ridotta, con 14 brani anziché 23,
risalente al 1994 e intitolata Driving Into The Sun). Un'altra raccolta
di rarità, purtroppo priva di qualsiasi ripescaggio dagli extended del periodo
Geffen (anch'essi in media splendidi), è Drowning - A Tommy Keene Miscellany
(Not Lame, 2004), interessante per i già convertiti benché, in quanto avara di
canzoni effettivamente superiori o più compiute di quelle poi finite nei dischi
ufficiali, sconsigliata ai neofiti (in una società ideale, in ogni caso, una stupenda
ballata quale Time To Say Goodbye verrebbe insegnata nelle scuole). Tommy
Keene You Hear Me: A Retrospective 1983-2009 (Second Motion, 2010), con
le sue 41 tracce (tra esse una sublime trasposizione acustica di Black & White
New York e un'edizione assai melanconica di Gold Town non reperibili
altrove, ma esiste anche una versione del disco in digital-bundle con 10 demo
in più da scaricare), rappresenta invece la miglior introduzione possibile al
mondo sonoro del musicista. Imperdibile, poi, è la ristampa Geffen di Songs
From The Film (1998), che, in aggiunta al disco originario, ripropone praticamente
per intero il dodici pollici Run Now (Geffen, 1986) e gli affianca, fra
le altre cose, un'incendiaria versione dal vivo di Teenage Head (Flamin'
Groovies, di nuovo). Resta infine da dire di Blues And Boogie Shoes
(Fading Captain Series, 2006), unico (per ora) album dei Keene Brothers, ovvero
il nostro Tommy in compagnia di Robert Pollard dei Guided By Voices, titolare
di quasi tutte le parti vocali e nondimeno piuttosto incline, almeno per lo spazio
di questo lavoro, a lasciarsi influenzare dallo stile più quadrato del compagno
d'avventura (cui spetta il compito di soprintendere all'architettura dei suoni)
e a evitare le "storture", la freakerie a volte fin troppo calcolata del gruppo
madre. Il disco è un discreto compendio di indie e college-rock, molto classico,
molto derivativo e senz'ombra di dubbio altrettanto passatista e filo-Sixties.
Eppure suona comunque più autentico e appassionato di qualunque canzone abbiano
mai registrato i Gin Blossoms (per dire qualcuno tra gli apostoli dichiarati)
e, pur non essendo la più personale fra le pellicole dirette da Tommy Keene, si
dimostra comunque in grado di riassumerne i temi - l'amore per il r'n'r più brusco
e diretto, la predominanza di sei corde e distorsioni, il rigore implacabile delle
melodie - in modo sufficientemente feroce e concreto.
Forse
non tutti sanno che...
Nel 1982, i fumettari mancati Tom Chalkley e Craig
Hankin, timonieri della minuscola formazione new-wave The Reason, mettono in cantiere
una parodia dello stile di Bruce Springsteen modellata su Take Me Out To The
Ballgame, l'inno ufficiale del baseball americano risalente al 1908. Il singolo
che la contiene, Live At Bedrock (Clean Cuts, 1982), esce sia in versione
7'' sia in versione 12 pollici, e sul lato A riporta l'improbabile marcetta di
Bedrock Rap, scioglilingua chiaramente ispirato, come del resto la grafica
dell'intero progetto (dove la copertina di Born To Run diventa una parodia giurassica,
con Springsteen nei panni di Fred Flintstone e Clarence Clemons in quelli di un
dinosauro), al cartone animato dei Flintstones (in Italia "Gli antenati"), nella
fattispecie alla canzone Meet The Flintstones, a sua volta tratta da Beethoven
e dalla terza stagione colonna sonora definitiva della serie. Il 45 giri, inaspettatamente,
vende più di 100'000 copie e, oltre a ottenere i complimenti dello stesso Springsteen,
diventa un piccolo successo, sovente trasmesso nei programmi radiofonici di Dr.
Demento, un dj del Minnesota celebre per la propensione alle stranezze. I musicisti
si spingono addirittura a realizzare un video, ma prima che avvenga la messa in
onda l'emittente MTV viene raggiunta da un'ingiunzione firmata dai legali della
Hanna & Barbera, azienda detentrice di tutti i diritti collegati all'universo
dei Flintstones, in cui si minaccia una causa legale, e di conseguenza la clip
viene riposta in un cassetto. Chissà dov'è finita: sarebbe stata una delle pochissime
testimonianze filmate non solo dei Reason e del tenorista jazz Ron Holloway, nel
singolo impegnato a ricreare le progressioni struggenti di Clemons, ma anche della
prima parte della carriera del chitarrista assoldato per l'occasione, un grande
fan di Springsteen allora alle prime armi. Si chiamava Tommy Keene
Tommy Keene - As Life Goes By (Live at the World MTV
1986)