"Senior
replicò soltanto con uno sguardo di aperto disprezzo. Quell'occhiata
riassunse in un attimo l'eloquenza mummificata di una tradizione di
uomini che cantano nei campi di cotone, contadini immersi nel sudore,
assassini mascherati, navi schiaviste dall'Africa, tutto ciò che l'agente
della libertà sulla parola con il suo accento del Bronx, alla Dion &
The Belmonts, non poteva fingere di intuire." (Johnatan Lethem, La fortezza della solitudine, 2003)
di Gianfranco Callieri
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Il ritratto
Christian "Dion" DiMucci nasce a New York
City il 18 luglio del 1939. Nel 1957, cioè quando il nostro si affaccia
per la prima volta sul mercato discografico, dopo numerose discussioni
con la famiglia e un'infanzia consumata tra i vicoli della città e i costumi
arcaici della comunità italoamericana, gli uffici dell'immigrazione di
Ellis Island rappresentano ancora un passato da lasciarsi alle spalle.
La "nuova vita" americana degli italiani strappati ai campi e alle montagne
è uno spettro da inseguire con cieca determinazione, i giardini di cemento
del Bronx, entro i cui tracciati Dion è cresciuto, una premessa da onorare
lavorando sodo, tirando a lucido i ristoranti dove si insegna l'arte dello
spaghetto, consumando brillantina, fischiando impertinenti alle ragazze
portoricane che aspettano la corriera per tornare a Hoboken, nel New Jersey,
o che stringono in mano la tessera da perforare prima dell'inaugurazione
del turno di notte in uno dei tanti maglifici dei sobborghi. Dion Di
Mucci possiede la voce più bella del circondario: acuta e dolce, chiara
e penetrante, capace di vincere la resistenza romantica di una fanciulla
in vena di serenate come di sibilare la più definitiva tra le minacce
a un paesano spintosi oltre i limiti. La Columbia Records fiuta l'affare
e gli permette di stazionare nei propri studios per pomeriggi interi,
che il Dion trascorre provando e riprovando sulla propria Martin i classici
del blues appresi durante i radio-days dell'immediato dopoguerra. Ma non
è il blues, quello che interessa alla Columbia: gli esperti del marketing
hanno stabilito che bisogna creare un segmento dell'industria riservato
ai tormenti amorosi e formativi dei teenagers - quelli bianchi, ovviamente,
gli unici provvisti di moneta sonante da spendere. Dion, quindi, fedele
al richiamo di sangue di alcuni conterranei cresciuti nelle stesse strade,
recluta accanto a sé altri due cantanti, Fred Milano e Angelo
D'Aleo, e un batterista, Carlo Mastrangelo: nascono Dion
& The Belmonts, armati di una ragione sociale che rende omaggio alle
strade del Bronx dov'è stata svezzata la loro generazione, e forse non
nasce, ma di sicuro tocca livelli di perfezione, armonia e brillantezza
ancora oggi inviolati, il doo-wop, ovverosia una sorta di scanzonato blues
vocale diffuso soprattutto negli agglomerati urbani di New York, Philadelphia,
Los Angeles e Chicago tra i neri e gli italiani d'America. Il doo-wop
stempera i bollori degli animi: parla d'amore ma guarda ai disordini del
Midwest, piace ai protestanti ma viene cantato soprattutto da cattolici,
predica integrazione ma contraddistingue una forma di servilismo sociale,
l'unica attraverso cui gli anglosassoni non purosangue possano avvicinarsi
al mainstream della musica popolare. Nasce nel Maryland da un gruppo nero,
gli Orioles di Baltimora, ma verrà ricordato negli anni soprattutto da
musicisti bianchi, primi tra tutti Bruce Springsteen, John Cafferty, Billy
Joel, Paul Simon e Lou Reed. Sebbene i contenuti del doo-wop tendano alla
leggerezza scanzonata, ben presto la vita di Dion assume tutt'altro tenore:
troppo successo e troppe droghe disintegrano il gruppo in men che non
si dica. I Belmonts scompaiono in pratica all'inizio degli anni '60, e
nonostante le non infrequenti reunion, verranno sempre ricordati come
un corollario della carriera solista del DiMucci. Che, allucinato dalle
droghe, alla metà del decennio favoloso riscopre Gesù e il cattolicesimo,
incontra il folk revival e scioglie le briglie di una carriera tanto erratica
quanto affascinante. Nei '70, ripulito e smagrito, Dion predica
folk dolcissimo, spartano e populista, salvo poi tornare a interpretare
il ruolo di catecumeno del rock'n'roll dal 1975 in poi. Gli anni '80 vengono
inaugurati da una tetralogia di dischi gospel, ma è il r'n'r sfacciato
del comeback di fine decade ad magnetizzare le luci dei riflettori. Nei
'90, ad onta di numerose retrospettive, succede poco; nondimeno, dal 2000
in poi, il nostro si toglie la soddisfazione di rileggere tutti gli amori
di gioventù, danzando leggero come una piuma tra doo-wop purissimo, parentesi
da cantautore folkie, torride cavalcate on-stage più springsteeniane dello
stesso Springsteen, centoni blues densi di rispetto e malinconia. Ogni
passo di danza cucito, come sempre, da una voce che è un tesoro nazionale,
e come pochissime altre dello stesso secolo ha saputo raccontare l'innocenza
e la coscienza tradita dell'America da un cornicione della sua città più
polifonica: una voce in grado di cantare il mito e il degrado, gli archetipi
e i ripensamenti, il desiderio violento di Mean Streets e l'epica
solenne di C'era una volta in America. New York City e la voce
di Dion DiMucci: quella stessa voce che così tante volte, nel minutaggio
lungo di un disco o nell'eternità breve di una canzone, ci ha fatto sentire
re e regine per una notte, o per un giorno, o per un sogno intero.
:: Il capolavoro
Greatest Hits
[Repertoire 1999]
1.
The Wanderer/ 2. A Teenager In Love/ 3. Runaround Sue/ 4. Where Or When/ 5. Lonely
Teenager/ 6. I Wonder Why/ 7. Lovers Who Wander/ 8. No One Knows/ 9. Little Diane/
10. Love Came To Me/ 11. When You Wish Upon A Star/ 12. Rudy Baby/ 13. Donna The
Prima Donna/ 14. Drip Drop/ 15. Ths Little Girl/ 16. Sandy/ 17. In The Still Of
The Night/ 18. Be Careful Of Stones That You Throw/ 19. The Majestic/ 20. Abraham
Martin And John
L'elezione di un disco antologico a capolavoro dell'artista?
Non prendetela per paradosso grossolano. Tra migliaia di anni Dion DiMucci
sarà ancora ricordato soprattutto, e giustamente, per le prolusioni doo-wop
effettuate in compagnia dei Belmonts. Questa raccolta, licenziata in Germania
da un'etichetta che della conservazione del passato ha fatto a dir poco bandiera,
ne raggruppa a sufficienza. Senza dimenticare che qui - insomma! - non si omette
nulla di significativo. Ok, sulla guida web di AllMusic vi dicono che manca all'appello
Abraham, Martin & John, il che è vero, ma sul serio non si capisce cosa c'entri,
visto che appartiene al Dion solista e folk e non a quello tutto cravatte e pullover
dell'epopea doo-wop di Belmont Avenue. Comunque. Greatest Hits assembla
20 motivi perentori per innamorarsi di Dion & The Belmonts e dei loro romanzi
brevi sull'adolescenza e la vita in città, le loro ballate su cuori infranti,
ragazze scappate, capricci della giovinezza, amori acerbi. Non esistono canzoni
che, al pari di I Wonder Why, A
Teenager In Love, No One Knows,
Lonely Teenager, Little
Diane, When You Wish Upon A Star,
Love Came To Me, The
Wanderer o The Majestic, abbiano
espresso con altrettanta efficacia, e senza mai dileggiarli con ironia o distacco,
il bisogno di assoluto dell'adolescenza, l'amplificazione enfatica del dolore,
del rimpianto e della rabbia giovanili, il problema dilaniante del "trovarsi
un posto nella società e, al tempo stesso, trovare se stessi" (Bruno Bettelheim).
Che tutto questo si esprima attraverso gioiosi giochi di parole, fiumi di fonosimbolismi
e cori di voluto infantilismo, mentre in sottofondo si stantuffano pop e rhytm'n'blues
di qualità sopraffina, in una costante marea di impeto rock, non deve stupire.
Se François La Rochefoucauld diceva, con ragione da vendere, che "la giovinezza
è un'ebbrezza continua: è la febbre della ragione", allora non c'è brano al
mondo che evochi questo stadio febbricitante con maggiore efficacia di Runaround
Sue, il lamento rockista, malinconico e incazzato di un amante
tradito che finge di voler dare consigli a qualcun altro ("People let me put
you wise": se non volete piangere quanto ho pianto io..., oppure "Ecco
la morale della storia da uno che la conosce già: alla larga da Sue!") ma
in realtà non riesce ancora a scendere a patti con la propria gelosia ("Sue
goeeeees... out [con quella sillaba "out!" che sibila come un cazzotto in
faccia] with other guys!"). E poi c'è Donna The
Prima Donna, su questa ragazza che sogna di entrare nell'alta società
e intanto lascia al palo i suoi derelitti spasimanti, ma è la protagonista di
quella che chi vi scrive considera la più bella rima della storia del rock. She
wears charms, diamonds, pearls galore, / She buys them at the 5 & 10 cents store.
/ She wants to be just like Zsa Zsa Gabor / Even though she's just Donna next
door. Benedetta innocenza.
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Dischi essenziali
Born to be with you [Phil Spector International
1975]
Poteva
sembrare strano che l'angelo caduto di New York City, il cantante passato dagli
amori degli adolescenti all'abisso delle droghe, e il produttore per eccellenza
del pop anni '50, quello che Tom Wolfe definì "the first tycoon of the teens",
non si fossero mai incontrati prima. Ma nonostante provenissero dalle stesse strade,
la combinazione tra Dion e Phil Spector non fu delle più felici. Dal punto
di vista umano e commerciale, se non altro, perché sotto il profilo artistico
Born To Be With You resta un'autentica pietra miliare. Leggenda
vuole che Cher, Sonny Bono, Bruce Springsteen e Little Steven, saputo delle sessions
di registrazione di due tra i loro idoli di gioventù, abbiano tentato di intrufolarsi
negli studios ottenendo l'unico risultato di essere sgarbatamente accompagnati
alla porta dalle guardie del corpo di Spector. Che è poi il vero artefice dell'album:
Dion si limita a cantare in modo ineguagliabile (sì, l'album non è il più
rappresentativo della sua carriera, ma che importa?), mentre Spector traccia geometrie
sonore devastanti, piccole sinfonie che condensano cent'anni di Broadway in un
minuto di wall of sound, textures di suono arricchite da migliaia di particolari
indecifrabili. L'altra faccia delle Ronnettes, di Born To Run o dei melodrammi
gospel di Roy Orbison consumata in un disco di pura polvere di stelle newyorchese,
spruzzata a piene mani sui sette minuti di armonie e sassofoni miagolanti della
title-track (un successo delle Chordettes risalente al 1956), sui lugubri profumi
d'incenso di In And Out Of The Shadows, sul
r'n'r luccicante di Good Lovin' Man, sul confessionale
folkie di Your Own Back Yard (dove Dion affronta
senza peli sulla lingua il dramma della sua tossicodipendenza). Il cantante, insoddisfatto,
se ne va prima che l'album sia finito. Il produttore lo pubblica, a proprie spese,
soltanto in Inghilterra. Della drogata cattedrale di suoni di Born To Be With
You si accorgono in pochi, ma Pete Townshend degli Who arriva a definirlo il più
grande disco di sempre. Lo crede lo stesso Spector, che ne scrive di proprio pugno
anche le note di copertina: In closing, I would dedicate this album to the
late Lenny Bruce - 'cause Lenny, we were all born to be with you
Return of the wanderer [Lifesong 1978]
Dopo
il flop commerciale di Born To Be With You, dopo l'altrettanto ignorato Philly-soul
dell'ottimo Streetheart ('76) e dopo essersi definitivamente scrollato di dosso
la tradizione folk abbracciata per un lustro abbondante, con Return Of The
Wanderer Dion torna a casa. Metaforicamente e musicalmente. L'album segna
infatti un ritorno alla jungleland asfaltata di New York e ai suoi personaggi,
che qui si chiamano Dave, Sheri, Bobby Johnny e Guitar Queen, all'epica stradaiola
del suo maggior successo (quella The Wanderer
fischiettata da chiunque nel 1961 e che, curiosamente, darà anche il nome all'omonima
banda di The Wanderers, il romanzo di Richard Price da cui Philip Kaufman trarrà
un film dallo stesso titolo nel '79), al cantautorato rock, alla ballata urbana,
il tutto tenuto assieme da un gruppo di musicisti somigliante a una E Street Band
in miniatura. Greil Marcus, su Rolling Stone, definisce l'album "il tentativo
di scendere a patti col proprio passato senza esserne intrappolati" e lo paragona
al Bob Seger di Night Moves. Nel disco ci sono senz'altro Seger e Springsteen,
ma anche il Tom Waits di una rockeggiante Lookin' For
The Heart Of Saturday Night, il folk-rock metropolitano dei Lovin'
Spoonful in Do You Believe In Magic, il Bob
Dylan visionario di Spanish Harlem Incident.
Ci sono soprattutto i ricordi dell'artista, che in (I
Used To Be A) Brooklyn Dodger e nei sei favolosi minuti di Midtown
American Mainstreet Gang evoca la propria giovinezza nel Bronx con
strepitosa malinconia rock, amari coriandoli doo-wop e sontuosi scenari da battaglia
di strada, confezionando un piccolo capolavoro destinato a influenzare non poco
gente come Willie Nile, Elliott Murphy, Jesse Malin o gli Hold Steady.
Sanctuary [Warner Bros. 1971]
Del
periodo folk dell'artista, quindi tra il 1968 e il 1972, Sanctuary
è forse il lavoro più strampalato e meno omogeneo. Ma anche il più bello, il più
autentico, sentito, originale. Non ha la compattezza di un Dion ('68) devoto a
Fred Neil, Bob Dylan, Joni Mitchell e Leonard Cohen, né la coerenza interna dello
strepitoso unplugged Sit Down, Old Friend ('70). Eppure, nel suo alternare brani
noti e meno noti, tracce inedite e riletture di canzoni già conosciute, pezzi
altrui (da Iain Matthews a Eric Von Schmidt) e pepite autografe, riesce a fotografare
come meglio non si potrebbe una stagione assai particolare nel curriculum di Dion.
Sanctuary celebra l'utopia hippie, l'età dell'Acquario e la tenerezza acustica
del folk-revival in undici brani all'insegna di un mellow-sound meravigliosamente
pastellato dov'è tutto un verdeggiare di amori, prediche pacifiste, saggezza da
troubadour. Indimenticabile è il folk-soul di una Sunshine
Lady che pare estratta di peso dal carnet di uno Stevie Wonder in vena
di radici, senza tempo la melodia stupenda della title-track, trascinante la rasoiata
rootsy di una Willigo impreziosita dalla chitarra
e dal dobro di David Bromberg. Mid-tempos struggenti, cantilene folk e
blues melanconici si sposano con calma olimpica, confezionando un intreccio di
suoni che non ha nulla (ma proprio nulla) da invidiare ai lavori coevi di un Tim
Hardin o di un Fred Neil.
::
Il resto
Partendo
dal presupposto cruciale che non c'è, nonostante i fisiologici episodi meno riusciti,
un brutto disco di Dion, al neofita non resta che decidere quale profilo
dell'artista apprezza di più. Tra i capolavori d'inizio carriera, così come nel
periodo folk e negli album rock di fine anni '70, si può pescare senza esitazioni.
Da maneggiare con maggior cautela gli anni gospel, talvolta appesantiti dalle
tipiche sonorità in voga nel decennio in cui sono stati realizzati, ma almeno
un Inside Job ('80), se non altro in virtù di quel capolavoro di
rock-ballad che risponde al nome di The Truth Will Set
You Free (tra le pagine più pregiate del catalogo del cantante), bisognerebbe
procurarselo. Idem dicasi per lo street-rock arrembante di Yo Frankie
('89) (prodigi quali King Of The New York Streets o Written On The Subway Wall
non dovrebbero mancare a qualsiasi cuore abbia trepidato, almeno una volta, per
Bruce Springsteen, Jim Carroll e Lou Reed) e per le cornucopie oldies di Dream
On Fire ('92) e Déjà Nu ('00), rispettivamente dedicati
al rock'n'roll anni '50 e al doo-wop. Non vanno sottovalutate nemmeno la bella
grinta di un album natalizio purtroppo sconosciuto ai più e lo smalto inattaccabile
degli ultimi album in chiave blues, mentre sono assolutamente da recuperare New Masters ('03), rilettura di vecchi successi effettuata in un trionfo
di folk-rock e sassofoni, e il torrido Live In New York ('01), accreditato
a Dion'N'Little Kings. Album dal vivo devastante, quest'ultimo, registrato
al Mercury Lounge di New York il 26 aprile del '96 con il drummer Frank Funaro
(ex Dictators e Del-Lords, oggi Cracker), il bassista Mike Mesaros (Smithereens)
e la chitarra incendiaria di Scott Kempner (anch'esso proveniente da Dictators
e Del-Lords), in pratica la crema del rock newyorchese più ruvido e punk. Ascoltate
l'incredibile, chilometrica King Of The New York Streets
che lo conclude: roba da scoperchiare l'inferno delle backstreets e, contemporaneamente,
spalancare i cancelli del cielo.
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Riepilogo (discografia)
Trovare antologie
di Dion, soprattutto per quanto riguarda la stagione dei Belmonts, non
è un problema. Semmai è difficile trovarle fatte bene. Tra quelle più sbrigative,
non sono male il singolo The Ep Collection... Plus approntato dalla See
For Miles nel 2001 o il sintetico The Essential della Sony ('05), ma migliore
ancora è The Complete Dion & The Belmonts, un Collector's Choice
da filologi del '98. A parte il quasi ovvio invito a lasciar perdere i greatest-hits
da cestone (ce ne sono a centinaia), chi volesse una panoramica sui prodromi blues
non ha che da indirizzarsi verso il superbo Bronx Blues - The Columbia Recordings
1962/1965 ('91) o verso lo speculare Don't Start Me Talkin' - Columbia
Recordings 1962/1965 ('07) (il periodo è lo stesso, ma le scalette differiscono).
Gli anni '70 e '80, invece, si trovano compendiati in 70s: From Acoustic
To The Wall Of Sound ('04) e The Best Of The Gospel Years
('97). Per chi desiderasse uno sguardo d'insieme, consiglio, a seconda della disponibilità
finanziaria, o il doppio The Road I'm On - A Retrospective ('97),
che è però l'unico a contenere la versione italiana di Donna The Prima Donna,
o il triplo King Of The New York Streets ('00), mentre il box quintuplo
della Collectables, The Wanderer: Then & Now ('06), sovente spacciato per
definitivo, risulta a dir poco discutibile per scaletta (dove in pratica manca
mezza carriera) e confezione (il 5° disco è un cd-s da due tracce). Quasi tutto
il resto è comodamente reperibile nei twofer (due dischi in un cd) realizzati
dalla britannica Ace a partire dai primi anni '90.
Presenting
Dion & The Belmonts (Laurie, 1959) 9 Alone
with Dion (Laurie, 1961) 7 Wish upon
a star with Dion & The Belmonts (Laurie, 1961) 7 ½ Runaround
Sue (Laurie, 1961) 10 Lovers who wander
(Laurie, 1962) 9 Dion sings his greatest hits
(Laurie, 1962) 6 ½ Ruby baby (Laurie,
1963) 8 Dion sings Love came to me (Laurie,
1963) 7 ½ By special request: Dion & The Belmonts
"Together" on record (Laurie, 1963) 7 Donna
the prima donna (Columbia, 1963) 10 Dion
& The Belmonts together again (ABC, 1966) 7 Dion
(a/k/a Abraham, Martin & John) (Laurie, 1968) 8 ½ Wonder
where I'm bound (CBS, 1969) (album non approvato dall'artista sul materiale
Columbia tra il 1963 e il 1965) 7 ½ Sit down
old friend (Warner Bros, 1970) 8 You're
not alone (Warner Bros, 1971) 8 Sanctuary
(Warner Bros, 1971) 8 ½ Suite for last summer
(Warner Bros, 1972) 8 Dion & The Belmonts reunion
- Live at Madison Square Garden (Warenr Bros, 1973) 7 Born
to be with you (Phil Spector, 1975) 9 ½ Streetheart
(Warner Bros, 1976) 8 Return of the wanderer
(Lifesong, 1978) 8 ½ Inside job (Stringday,
1980) 8 Only Jesus (Word, 1981) 7 I put away my idols (1983) 7 ½ Seasons
(Word, 1984) (antologia dei tre album precedenti con un inedito, Golden sun, silver
moon) 7 So why didn't you do that the first
time? (1985) (inediti e rarità di fine anni '50) 7 ½ Kingdom
in the streets (Word, 1985) 6 ½ Velvet
& steel (Word, 1986) 6 ½ Yo Frankie
(Arista, 1989) 7 ½ Fire in the night
(1990) (registrato nel 1979) 7 Dream on fire
(Vision, 1992) 7 Rock'n'roll Christmas
(Capitol, 1993) 7 Déjà nu (Collectables,
2000) 7 Dion'n'Little Kings - Live in New York
(Ace, 2001) 8 New masters (Collectables,
2003) 8 Dion & friends - Live in New York City
(Collectables, 2005) 7 Bronx in blue
(Dimensional, 2006) 7 ½ Son of Skip James
(Verve Forecast, 2008) 7 ½