Dave Alvin
"Le strade blu"

Era il 1979 quando un giovane soldato americano, "di stanza a Berlino Ovest", pensava con nostalgia all'amato rock'n'roll e a tutti gli affluenti del grande fiume della musica americana ("Louisiana boogie e Delta blues, / country, swing e anche rockabilly / Jazz, country-western e blues di Chicago") che nei confini dell'allora RFT sembravano del tutto sconosciuti. Non so se, all'epoca, Dave Alvin fosse mai stato nella capitale tedesca. Di certo l'avrà visitata dopo, in uno dei suoi innumerevoli tour europei: le occasioni, insomma, in cui anche a noi abitanti del vecchio continente è stato fatto capire come quella benedetta American Music, disciolto il gruppo che per primo l'aveva chiamata col proprio nome, avesse trovato un nuovo custode.

A cura di Gianfranco Callieri

 
:: Il ritratto

 

"Custode" delle storie e dei timbri della musica americana più onesta, profonda e genuina. Non riesco a immaginare musicista che meriti questo titolo più del californiano Dave Alvin. Né voglio immaginare lettori spaventati dall'uso del sostantivo custode ("portinaio" o "bidello" suonavano male), nonostante ci sia sempre chi storce il naso quando il rock'n'roll, e il suo portamento semplice ed elementare (ma quante sfumature, quanti riflessi possono balenare anche e soprattutto nella semplicità?), viene contaminato da riferimenti appena un po' più "alti" rispetto al medio analfabetismo imperversante nella critica musicale italiana (a sua volta flagellata da falangi di volontari e bloggers abituati a confondere analisi e opinione, nozionismo e capacità di lettura), come se davvero bellezza, cultura e folclore non avessero bisogno di custodi in grado di testimoniarne lo spirito e i cambiamenti attraverso il tempo. Naturalmente il ruolo di Dave Alvin nei panni di promotore delle radici musicali americane non è - ovvio - quello di Giuseppe Parini precettore del piccolo Gian Galeazzo in casa del Duca Serbelloni; prendetelo piuttosto alla stregua di un William Last Heat-Moon in perenne viaggio attraverso le "strade blu" (Strade Blu, Einaudi), o strade secondarie, della provincia Americana non ancora inquinata dall'esplosione orizzontale di shopping-malls e catene di cibo spazzatura per raccoglierne racconti, volti, panorami, suoni e colori da tramandare attraverso una canzone.

In questo senso, non si può che dar ragione a chi sostiene che un grande artista gira sempre lo stesso film, dipinge solo lo stesso quadro, scrive lo stesso libro o, appunto, canta soltanto la stessa canzone: dalla Marie, Marie di trenta e rotti anni fa, la ragazza intenta a "suonare la chitarra in modo così triste / dal portico sul retro della sua casa" e insensibile ai richiami del coetaneo che, sapendo quanto fossero solitarie le "farmlands" (terre agricole) in cui entrambi vivevano, voleva portarla ad ammirare "le luci sfavillanti del centro", Dave Alvin non ha mai smesso di dar voce a chi una voce, sui grandi media o nei guazzabugli delle classifiche pop, non l'aveva e non l'avrebbe avuta, in questo modo - attraverso una radiografia minima eppure partecipe e appassionata delle storie racchiuse nei muri sbiaditi delle periferie, nel traffico soffocante delle città di confine, nella solitudine dei deserti - rielaborando il credo democratico di un Woody Guthrie con efficacia assai maggiore rispetto ai tanti (troppi) folk-singer iper-ideologici per i quali apocalisse e integrazione restano in fondo la stessa cosa.

Per Dave Alvin, invece, l'apocalisse è una soltanto: quella della memoria, quella dei nomi dimenticati nella luce crepuscolare di una stazione di rifornimento o nei paesaggi sconosciuti di una guerra lontana e distante. È stato così fin dall'inizio, fin da quando, cioè, il giovane Dave, nato nel 1955 a Downey (zona sud-est della Los Angeles County) e fin da piccolo appassionatosi alle gesta di T-Bone Walker e Big Joe Turner, aveva in pratica preso l'abitudine di impartire lezioni informali di roots-rock un po' a tutti i membri del circuito punk della California, prima facendo scoprire il blues a un Jeffrey Lee Pierce (Gun Club) poco più che maggiorenne, poi prestando i servizi della propria sei ai Flesh Eaters di Chris Desjardins e infine collaborando con gli X di John Doe ed Exene Cervenka, per i quali avrebbe sostituito il chitarrista dimissionario Billy Zoom e contribuito alla creazione del progetto Knitters, in pratica l'alter-ego country del gruppo madre. Senza dimenticare, è chiaro, l'epopea dei Blasters, la formidabile macchina da guerra r'n'r formata col fratello Phil che pratica ispirò, da sola o quasi, tutta la rinascita del rock tradizionalista del periodo, di fatto spianando la strada al successo di moltissimi artisti intenti a recuperare una visione primigenia della musica country e del rock'n'roll.

Nel 1985, all'indomani del capolavoro Hard Line, sembrò davvero che i Blasters stessero per diventare i più credibili eredi del gesto rockista e proletario dei Creedence Clearwater Revival, e invece le solite, insanabili divergenze tra i fratelli Alvin mandarono tutto a monte. Entrambi esordirono da solisti (e gli album di Phil, sia l'incompreso Un Sung Stories ['86], elegante frullato di jazz, blues e gospel confezionato col supporto della Dirty Dozen Brass Band e dell'Arkestra di Sun Ra, sia il misconosciuto County Fair 2000 ['94], ottimo esempio di "Americana" in anticipo sui tempi, andrebbero riscoperti), ma tra i due, a dare l'impressione di un radioso avvenire davanti a sé fu da subito fu Dave, il cantautore del gruppo, appena gratificato di un contratto nuovo di zecca da parte della potente Columbia. Anche stavolta, però, le cose non andarono come previsto: Romeo's Escape, il debutto di Dave da titolare (intitolato chissà perché Every Night About This Time nell'edizione europea targata Demon), pur supportato da buone recensioni, non ottenne un risultato commerciale in linea con le aspettative dell'editore e Dave si ritrovò in men che non si dica senza uno straccio di etichetta.

Per sgombrare la mente da brutti pensieri e preoccupanti prospettive professionali, Alvin si concesse un tour a fianco di due vecchi amici, Mojo Nixon (adorabile pazzoide psychobilly) e Country Dick Montana (ex cantante e batterista dei Beat Farmers, prematuramente scomparso nel 1995): col nome di Pleasure Barons e con lo slogan "un varietà in stile Las Vegas da parte una compagnia a cui non verrebbe mai chiesto di esibirsi a Vegas", i tre girarono in lungo e in largo gli stati del Sud al ritmo bislacco di medley da Tom Jones, classici blues elettrici di Bo Diddley e rhytm'n'blues mutuati da Joe South (Games People Play, terrificante showcase delle abilità del Dave Alvin chitarrista). Dopo un secondo tour arrivò persino un album, il delizioso Live In Las Vegas ('93), pubblicato dalla Hightone, che dal '91 al 2004 fu per Alvin una specie di seconda casa dove sfogare la propria predilezione per alcuni grandi del passato: difatti ottenne carta bianca per allestire un pionieristico tributo a Merle Haggard (Tulare Dust, '94) e si tolse persino lo sfizio di registrare un disco, peraltro gradevolissimo, al fianco di Sonny Burgess, stagionata leggenda rockabilly dell'Arkansas (Tennessee Border, '92).

Qualche anno dopo, King Of California ('94), stupenda raccolta unplugged destinata a costituire un precedente nella carriera dell'artista, divenne il trampolino di lancio verso futuri successi (compreso il Grammy, ottenuto nella categoria Best Contemporary Folk Album, per Public Domain: Songs From The Wild Land ['00], scarna e antispettacolare collezione di traditionals d'impronta folk, blues e country). Attraversati gli anni '90 con splendida maturità folkie (e con qualche disco dal vivo buono a far ruggire i motori del rock'n'roll come ai tempi dei Blasters), nel decennio successivo, contrassegnato dal lutto per il precoce trapasso dell'amico Chris Gaffney (morto appena cinquantasettenne, nel 2008, a causa di un cancro al fegato: un anno dopo, Dave gli dedicherà, orchestrandolo, suonandovi dappertutto e provvedendo a radunare tutti i partecipanti, il magnifico tributo Man Of Somebody's Dreams) si è dedicato con impegno e costanza (di risultati) all'arte difficile del rinnovamento. È importante, a questo punto, sottolineare un elemento essenziale del percorso di Dave Alvin: mi riferisco alla tendenza, non per caso ricorrente, a scontornare in profondità le proprie composizioni (spesso riproposte tramite arrangiamenti diversi) e a cimentarsi con la scrittura altrui, fino ad avere in carnet due dischi interamente composti di brani non autografi. Tendenza, questa, non ascrivibile a una fantomatica povertà d'ispirazione, bensì al mai sopito desiderio, tipico del fan ammirato, di confrontarsi con le proprie passioni e i propri referenti stilistici allo scopo di amplificarne il valore, evidenziarne la virtù, sottoporne a manutenzione il ricordo. Comunque la si veda rispetto ai risultati, secondo chi vi scrive di rado al di sotto di livelli standard d'eccellenza, l'obiettivo di Dave Alvin può dirsi raggiunto.

È anche merito suo, e di tutti i tradizionalisti come lui, se oggi la memoria dei suoni più antichi viene sottoposta a indagini analitiche e processi di conservazione, se il mercato non è in mano a un pugno di multinazionali incompetenti e arraffone, se il cuore profondo dell'America può ancora contare su artisti in grado di raccontarne non solo grettezza e squallore ma sogni, seconde possibilità, speranze piccole e grandi (tutte raccontate con grande affetto nelle raccolte di poesie e racconti. È anche grazie a lui se, nella vastità irraggiungibile della heartland americana, tutte le donne col cuore spezzato (quelle che si concedono "ogni notte alla stessa ora" perché "le facce non contano granché / a luci spente", quelle a cui "non c'è nulla da dire quando te ne vai / nessun bisogno di lunghi addii" perché non sentiranno la tua, di mancanza, ma di un amante sparito molto tempo prima), tutte le ragazze scappate da casa (magari da un padre ubriaco e manesco, e ora ridotte "a ballare sui tavoli / per pagare l'affitto, riuscire a cavarsela / e forse restare pulite", pronte a un appuntamento in un bar di Austin e a sperare che lui, l'uomo dell'appuntamento, "non sia così schifoso", almeno non questa volta), tutti gli amori di un tempo rimasti in qualche dimessa cittadina dei margini a rimpiangere le opportunità perdute ("non posso dirti molto sulla nostra vecchia città / tutto cambia ma non c'è nulla di nuovo / (…) / io faccio sempre lo stesso lavoro / vivo ancora con mia madre / da quando il vecchio se n'è andato / lasciarla è diventato ancora più difficile" scrivono, in lunghe lettere che non saranno mai spedite), tutte le notti troppo lunghe e le madri abbandonate (le stesse che ogni sera, poco dopo la mezzanotte, dedicano un brano al loro uomo scomparso "provando a ricordare il calore del suo tocco") hanno trovato una radio sempre accesa, pronta a trasmettere le loro illusioni e la loro resistenza quotidiana incartandole in una canzone. È la radio sulla quale tutti noi, un giorno, ci siamo sintonizzati, senza più cambiare stazione. È la radio del confine.

 
 
:: Il capolavoro
 

King of California
[Hightone, 1994]

1. King Of California // 2. Barn Burning // 3. Fourth Of July // 4. Goodbye Again // 5. East Texas Blues // 6. Every Night About This Time // 7. Bus Station // 8. Mother Earth // 9. Blue Wing // 10. Little Honey // 11. (I Won't Be) Leaving // 12. What Am I Worth // 13. Border Radio

 

Il viaggio attraverso le strade blu, evocato con chiarezza nello scatto del retrocopertina (l'asfalto di una strada di campagna, reso ceruleo dalla luce del tramonto), si materializza in piena sbornia unplugged, quando chiunque, da Paul McCartney ai Nirvana, sembra riscoprire le virtù del suono acustico (e la redditività delle telecamere dell'omonimo programma di MTV). King Of California, però, non rappresenta un cedimento modaiolo ma una vera e propria palingenesi: accompagnato da una formazione ristretta e prevalentemente stripped, trovata nello straordinario Greg Leisz (che produce, dirige i musicisti e si occupa di chitarre slide, steel e Weissenborn) un'anima gemella cui affidarsi senza paracadute, Dave Alvin si riscopre grande interprete, soprattutto dei suoi stessi brani. E se è un piacere riascoltare le vecchie Bus Station e Little Honey trasformate, rispetto ai prototipi appartenuti a Blasters e X, in un delicato rituale di arpeggi old-timey e in una zingaresca parata di violini, il meglio arriva dal sontuoso blues acustico della title-track, dalla nostalgia in formato valzer di (I Won't Be) Leaving, dall'asciutta poesia country di una Blue Wing mutuata dal repertorio dell'amico Tom Russell. La purezza di un blues scarnificato e primigenio domina ovunque (Mother Earth viene da Memphis Slim, East Texas Blues dall'oscuro pianista texano "Whistlin'" Alexander Herman Moore), ma non mancano neppure il r'n'r di sempre, stavolta affidato al roots-rock travolgente della classica Fourth Of July (magistrale il B3 in sottofondo) e al sontuoso crescendo elettroacustico della toccante Every Night About This Time, il countreggiare malizioso di Goodbye Again (Rosie Flores alla seconda voce) e il divertito honky-tonkin' di What Am I Worth (in duetto con Syd Straw).

Protagoniste assolute dell'operazione sono la steel elegiaca di Leisz, che riempie di malinconiche sfumature tra country e folk ogni angolo delle canzoni, e la voce stupenda di Alvin, arrochita dalla sigarette e inverata, nelle discese più baritonali (quasi un crooning in chiave folkie), dagli anni trascorsi su autostrade e palcoscenici; la combinazione tra i due elementi produce uno dei ritratti definitivi di uno spazio dove l'uomo può perdersi e rinascere (come il Dave Alvin artista) tra sfinimento e desolazione, tra la bellezza incontaminata del paesaggio e la calma irreale della sera. Lo scopo di Alvin non è quello di "demistificare" una tradizione, sia essa quella a suo modo già classica dei Blasters o quella arcaica del folk-blues texano. La sua scommessa sta nel recuperarne i valori stravolgendo le forme espressive tramite cui si manifestano, fino ad arrivare al punto dove la Border Radio dei Blasters, in origine uno shuffle acerbo e frizzante, a confronto con la versione qui contenuta (solo voce e una vecchia Martin acustica accarezzata con classe ultraterrena) sembra un gioco per bambini capricciosi. All'impazienza burrascosa della gioventù si è sostituito il giusto distacco dello storyteller di vaglia, ormai in grado di mutare con la sola forza della voce e della misura degli arrangiamenti i dubbi e le angosce di Fourth Of July ("Qualunque cosa sia successa / ti chiedo perdono / Ora asciugati le lacrime e usciamo di casa / è il quattro di luglio", ovvero il giorno dell'indipendenza americana dal dominio coloniale britannico) in un apologo universale, enunciato ricorrendo a una prosa secca e acuminata degna di Richard Ford, sulla difficoltà dei rapporti di coppia. Negli accordi di King Of California, nella polvere delle sue colline e nell'isolamento delle sue strade, c'è il piacere amaro di un vagabondaggio tra le istantanee di una terra forse soltanto sognata e nondimeno viva, pulsante, concreta. E, anche, una porzione non indifferente delle nostre vite e delle nostre suggestioni di ascoltatori.

 
:: Dischi essenziali
 

Blackjack David [Hightone, 1998]

Secondo pannello di un dittico con pochi eguali nella storia recente del rock delle radici, Blackjack David fa ripartire la scrittura di Dave Alvin da altezze vertiginose. Il team di musicisti è lo stesso di King Of California (in più c'è Dillon O'Brian alle prese con fisarmonica e armonio), ma le canzoni, questa volta, sono quasi tutta farina del sacco di Alvin, mai così sicuro, appuntito e preciso nell'accumulare dettagli narrativi degni di un John Hiatt o di un Raymond Carver. Dal border patrolman inorridito di fronte al ritrovamento di una clandestina già cadavere (e comunque costretto a rimpatriarne il marito) in una California Snow scritta a quattro mani con Tom Russell, fino al lento dissolversi di una relazione descritto in Evening Blues o al reduce ossessionato dal ricordo un commilitone abbandonato nella giungla del Vietnam (1968, cointestata a Chris Gaffney), Blackjack David contiene alcune delle migliori storie mai tratteggiate dall'autore, tutte confezionate in un suono di elegantissima fattura elettroacustica. Anche lo schema della track-list, con un sapiente intercalare di folk ambientale, scossoni roots e blues spettrali, riprende quasi alla lettera quello del predecessore. Registrati nei Media Vortex Studios di Burbank, California, tra il febbraio e il marzo del '98, il blues spagnoleggiante della title-track, il mid-tempo roots-rock di Abilene, la gracile tristezza folkie di From A Kitchen Table (accompagnata con discrezione dal clarinetto e dall'organo di Doug Wieselman), la solenne murder-ballad di Mary Brown o lo swingato country & western di Laurel Lynn (nelle parole di Alvin, "Howlin' Wolf incontra un fisarmonicista cajun e la band di Roy Acuff") inquadrano il sobrio perimetro di stile di un disco tanto essenziale quanto incisivo. La conclusione dell'album, affidata al rarefatto intreccio di steel à la Daniel Lanois dell'evocativa Tall Trees, apoteosi visionaria di dark-folk da qualche parte tra Blind Willie Johnson e Twin Peaks, sintetizza in modo perfetto il suono al tempo stesso ruvido ed elegante di un album i cui rintocchi assomigliano al lento schiudersi di una primavera tardiva, foriera di un paesaggio dove i timidi raggi del primo sole ancora non hanno disciolto il manto di neve appoggiato su case, strade e palazzi. "Ho sentito dire che ti sei sposata / anche se avevi giurato che non l'avresti mai fatto / Immagino tu abbia avuto dei bambini tuoi, ora, / gli racconti mai del vecchio vicinato? / Come quella volta in cui rubammo la macchina di tuo padre / e guidammo tutta la notte lungo la Imperial Highway / Tu continuavi a ripetere che dovevamo tornare indietro, / io ti rispondevo che scappare non era poi così difficile", canta Alvin nelle diminuite di From A Kitchen Table, e da quel tavolo, da questo disco, si ha la sensazione di poter osservare un mondo.


West of the West
[Yep Roc, 2007]

Il fantasma dell'inverno di Blackjack David è scomparso. Al suo posto, ecco la mitezza primaverile di una California bagnata dal sole, dall'abbraccio con l'asfalto, dalle onde flessuose dell'oceano Pacifico, dall'ombra remota delle montagne del vicino Oregon. West Of The West è il personale tributo dell'autore alle canzoni di altri cantautori (dal Jackson Browne di Redneck Friend al Tom Waits di Blind Love, dai Los Lobos di Down On The Riverbed al Richard Berry di I Am Bewildered), tutti accomunati dal fatto di provenire dal cosiddetto "Sunshine State", e la conferma di come, negli ultimi vent'anni, il Dave Alvin acustico (o semiacustico) abbia di gran lunga superato, in fantasia e raffinatezza, la controparte elettrica. Naturalmente, nemmeno qui latitano le eccezioni alla regola: il capolavoro del disco, una Loser presa in prestito alle fantasticherie psych di Jerry Garcia e Robert Hunter (stava sul debutto del barbuto chitarrista, l'omonimo Garcia del '72), trasforma il suono dilatato e visionario dell'originale in un tagliente noir elettrico sferzato dalle rasoiate di tre diverse chitarre, mentre il doo-wop celestiale della Surfer Girl originaria (proprietà dei Beach Boys) regala l'occasione, grazie alle armonie vocali dei Calvanes, per redigere un omaggio all'Elvis Presley formato gospel delle registrazioni con i Jordanaires. Ma il succo dell'album resta nei morbidi intrecci tra sei corde acustiche, organo, pianoforte e percussioni di California Bloodlines (John Stewart) o Tramps And Hawkers (Jim Ringer), due riletture che hanno il pregio di individuare tutta la personalità dello stile di Alvin, imbattibile nel cesello di ballate ingentilite dalle luci del tramonto, senza snaturare la lettera dei prototipi. Incantevoli sono anche la malinconia western di una Kern River (Merle Haggard) tutta pedal-steel, violino e mandolino, la nostalgica tenerezza country-rock di una Here In California (Kate Wolf) attraversata da slide e harmonies da manualistica del genere, il country-blues per armonica, National Steel e pianoforte di Don't Look Now (dai Creedence di Willy & The Poorboys). Giustissima, infine, l'inclusione di Between The Cracks, brano scritto a quattro mani da Dave Alvin e Tom Russell (la pubblicò per primo Alvin, su Museum Of Heart, ma questa versione è più simile alla lettura russelliana reperibile nell'ottimo The Rose Of The San Joaquin ['95]) su un pugile ("Kid Hey Zeus") sparito a Los Angeles e sulla sua donna che continua ad aspettarlo, lavorando duro nei campi della Valle di San Joaquin: un pezzo magnifico, colonna sonora ideale di un film neanche tanto immaginario (Città Amara di John Huston andrebbe benissimo) ambientato tra il Messico e la California, che dimostra, casomai ce ne fosse stato bisogno, lo status di classico ormai raggiunto dal songwriting dell'artista.


Dave Alvin & The Guilty Women
[Yep Roc, 2009]

Quasi nessuno ha colto la grazia enorme, la bellezza corale, la spontaneità di questo album. Meglio così, forse: significa che in giro ci sono tanti ascoltatori con una sorpresa che li attende dietro l'angolo. Dave Alvin & The Guilty Women, progetto all-female canonizzato da Alvin dopo un'estemporanea esibizione del neonato gruppo all'Hardly Strictly Bluegrass Festival di San Francisco in cui il nostro, ipse dixit, si era limitato a radunare musiciste da sempre apprezzate, dimostra in modo ancora una volta probante quante siano le possibilità di svecchiare una tradizione, nonché un genere di solito appaltato alla metà maschile del cielo, senza tradirne lo spirito ma, anzi, ringiovanendolo con pochi gesti schietti e genuini. Non so se la freschezza del disco vada imputata a Christy McWilson (voce solista), Cindy Cashdollar (chitarre steel, National, Weissenborn e resofoniche assortite un fenomeno), Nina Gerber (sei corde), Laurie Lewis (mandolino), Amy Farris (viola e violino), Sarah Brown (basso) e Lisa Pankratz (batteria), senza dimenticare Marcia Ball (pianoforte) e Suzy Thompson (fisarmonica) in quanto donne; so, tuttavia, che l'atmosfera sororale, di confidenza e intimità, diffusa lungo tutte e dodici le canzoni dell'album non potrebbe prescindere dalla loro particolare visione della materia roots, qui affrontata con una densità di sfumature e una ricchezza di suoni spesso impossibile a reperirsi nei lavori di colleghi sovente più interessati a manifestarne la forza virile ed epidermica (e, di riflesso, poco attenti al fascino delle mezze tinte o al magnetismo delle allusioni). Ecco, quindi, Marie, Marie nella sua versione più bella di sempre, festosa e trascinante come un ballo cajun offerto alla luna svettante sulla costa acadienne del Québec, ecco i velenosi suffumigi bluesy della crepitante California's Burning, il folk-rock etereo e malinconico di Downey Girl, l'hillbilly appalachiano di una Weight Of The World che sembra Dock Boggs travolto da Jerry Lee Lewis. Il commovente folk operistico di Anyway, l'accorato country-gospel di Potter's Field e la magnifica ballata rootsy These Thimes We're Living In (un gioiello dimenticato di Kate Wolf) trovano poi degni contraltari nel focoso rhytm'n'blues di Boss Of The Blues (ennesimo peana di Alvin all'adorato Big Joe Turner), nell'honky-tonk di Nana And Jimi e nel rock'n'roots elettroacustico di River Under The Road e Don't Make Promises (quest'ultima un vero e proprio showcase di virtuosismi sugli strumenti a corda), fino alla chiosa deliziosa di una Que Sera, Sera (proprio quella cantata da Doris Day nell'hitchcockiano Uomo Che Sapeva Troppo ['56]), posta in coda all'album per suggerire come tempo e speranze, in fondo, guariscano ogni ferita. Quasi ogni ferita: Amy Farris, la piccola violinista rossocrinita che nel booklet di Dave Alvin & The Guilty Women nasconde il proprio volto dietro il corpo dello strumento, è stata ritrovata nella sua casa di L.A., priva di vita, pochi mesi dopo la pubblicazione dell'album, vittima di un suicidio - questa la spietata diagnosi delle autorità inquirenti - per intossicazione da antidepressivi.

 
:: Il resto
 

Romeo's Escape [Demon, 1987]
Blue Blvd.
[Hightone, 1991]
Museum Of Heart
[Hightone, 1993]

Congedata l'esperienza dei Blasters, Dave Alvin riappare nei negozi di dischi con un ottimo lavoro solista che ha il solo difetto di non aggiungere quasi nulla alle migliori intuizioni del vecchio gruppo (dal cui repertorio, peraltro, preleva ben quattro canzoni). Romeo's Escape, aiutato dalla spigolosa produzione stonesiana di Steve Berlin, suona dunque come un buon punto della situazione, ma dal punto di vista della confezione non dice molto di più rispetto a quanto già espresso, con ben altri colori e ben altra energia, tra i solchi di Hard Line, l'indimenticabile canto del cigno della prima band del nostro. Il solitario disincanto dell'asciutta Brother (On The Line) (forse un'invocazione al fratello Phil), il "tiro" springsteeniano di I Wish It Was Saturday Night e la grinta rootsy di Far Away funzionano in modo impeccabile, eppure resta l'impressione di trovarsi di fronte a un riassunto piuttosto che a un paradigma su cui scommettere per il futuro. Il problema, evidenziato anche nel successivo Blue Blvd., sta in una band di secondo piano (complicazione del resto sofferta dal nostro fino all'incontro con Greg Leisz) e in arrangiamenti che, pur volendo catturare la magia di alcune grandi registrazioni del passato, finiscono per risultare un po' vecchiotti e paludati. Il secondo album di Alvin, poi, nonostante diverse tracce di ottima caratura (lo scuro folk-blues di Dry River, il devastante rockabilly chitarristico di Haley's Comet e Wanda And Duane, l'epico populismo roots di Andersonville) risente anche di un'invadente batteria fuori tempo massimo, per fortuna scomparsa, o meglio ammorbidita, in Museum Of Heart, primo passo verso la definizione del sound Americana dell'artista e tuttavia lavoro ancora incerto, zoppicante. I suoi brani migliori (Thirty Dollar Room e la title-track) verranno in seguito totalmente stravolti, il resto verrà dimenticato piuttosto in fretta.


Public Domain [Hightone, 2000]

O di come certi dischi non andrebbero mai rispolverati, giacché vi sono occasioni in cui il ricordo, pur deformato da altri fattori, è molto meglio della verifica. Avevo un'opinione altissima di questo album, raccolta di vecchie canzoni folk ("spiriti che appartengono a ciascuno di noi", dice Alvin) tra l'altro contrassegnata da un sorprendente successo anche al di fuori della nicchia del genere, finché non l'ho ripreso in mano per la presente retrospettiva: con mia somma sorpresa, mi sono trovato di fronte a 15 canzoni soporifere e sorpassate, a una galleria di anticaglie folk dove, forse per la prima ed unica volta nel corso di un'intera carriera, l'istintivo slancio di Dave Alvin nei confronti della tradizione musicale del suo paese sembra rispondere non tanto a un desiderio di traduzione creativa, bensì a una logica di conservazione museale e inutilmente ampollosa. Il punto, qui, non è salvare questa o quell'altra interpretazione (il country-blues di Maggie Campbell e Walk Right In, il rockaccio furioso di Don't Let Your Deal Go Down o l'evocativo passo folkie di Sign Of Judgment passano l'esame senza alcun intoppo); il punto è che il pur volenteroso ventaglio folk-rock aperto in Shenandoah scompare in un batter d'occhio se paragonato, per dire, alla rilettura effettuata da Bill Frisell nel quasi coevo Good Dog, Happy Man ('99) (tra parentesi molto più affine al suono acustico dell'ultimo Alvin), e che la narcotica versione di Texas Rangers qui contenuta la potremmo forse accettare, fra uno sbadiglio e l'altro, in un disco didattico di Michael Martin Murphey, o nelle fantasie di chi ancora gioca ai soldatini, non certo in un lavoro di Dave Alvin. Greg Leisz, impegnato a maneggiare dobro e mandolino in soli due o tre pezzi, mantiene una posizione assai più defilata rispetto a King Of California e Blackjack David, e senza la sua direzione d'orchestra i musicisti, purtroppo, non riescono a catturare il fascino, il mistero sottile e l'inquietudine guizzanti tra le note dei traditionals affrontati. La registrazione "quadrata" e rockettara di Mark Linnett, infine, non giova alla riuscita di un progetto afflitto dalla rigidità questurina del sussidiario, e Public Domain se ne va a infoltire il novero di quelle opere molto citate e, per carità, molto rispettate, che però quasi nessuno ha mai voglia di ascoltare.


Ashgrove [Yep Roc, 2004]
Eleven Eleven
[Yep Roc, 2011]

Bringing It All Back Home: Dave Alvin fa ritorno all'Ashgrove, il leggendario club di Los Angeles dove scappava da giovane per vedere in azione i giganti del blues e della musica soul, gli dedica il titolo dell'album e impacchetta ricordi (la recente morte del padre) e nuove esperienze (da un contratto discografico appena firmato a un tour dei Blasters che, fino all'annuncio delle date, nessuno credeva possibile) in sei minuti di torrido rock-blues costruito su amplificatori sfrigolanti e svisate di slide. Ashgrove, supportato dalla concisa produzione del solito Leisz e dal drumming spettacolare di Don Heffington, è il disco più compatto e fulminante (non necessariamente il più bello) di tutta la carriera di Alvin, un'opera nata per sfogare la voglia di suonare roventi, sudati e recalcitranti come i musicisti di un sordido juke-joint (la torrida Black Sky sembra sbucare da una bettola di Clarksdale, Black Haired Girl saetta blues chicagoano con strepitosa intensità urbana), senza però dimenticare il gusto delle grandi ballate, della nostalgia per uno struggente passato folkie per una volta svincolato dalla pretesa di suonare definitivo. Tant'è che nel country-rock malinconico della bellissima Nine Volt Heart, nella descrizione di una bambina triste che ricorre alla radio per "volare lontano" quando si trova sola ("Aspettami in macchina, le disse sua madre / mentre entrava in un bar a cercare papà"), abbiamo finalmente un degno successore della storica Border Radio, e in Everett Ruess, The Man In Bed e Somewhere in Time altrettanti esempi di una felicità ineguagliabile nello sposare rock e radici.

C'è parecchio blues elettrico anche nell'ultimo Eleven Eleven, ancora una volta benedetto da un'inconfondibile capacità di sintesi nel riunire tutte le anime della musica americana: il folk-rock di frontiera della toccante No Worries Mija, gli esplosivi sortilegi ritmici di una Run Conejo Run che strizza l'occhio a Bo Diddley, il western-swing alcolico della rutilante Gary, Indiana 1959, l'incalzare epico e percussivo di una Murietta's Head ispirata all'omonimo Joaquin Carillo, "il Robin Hood dell'Eldorado", un bandito leggendario (non si sa nemmeno se sia realmente esistito) che, durante la "corsa all'oro" della California di metà '800, sottraeva i proventi delle miniere per destinarli al popolo messicano (ma altre testimonianze sostengono li tenesse per sé). La conclusiva Two Lucky Bums, sfuggente parentesi jazz-lounge incisa con l'amico fraterno Chris Gaffney, sembra l'ennesima constatazione di una vita piena e soddisfacente a dispetto dei numerosi lutti; What's Up With Your Brother?, il pezzo dove i fratelli Phil e Dave Alvin tornano finalmente a parlarsi (un piccolo evento, in tutti i sensi), scherzando e cantando sulle proprie idisincrasie, sui propri limiti e sulla constatazione di come, dopotutto, provare a rispettarsi sia meno seccante che sentirsi ripetere in continuazione "cosa c'è che non va con tuo fratello?" (benché sul finale, da veri istrioni, i due fingano di tornare a litigare… tutta finzione?), ci ricorda invece di quanto sia importante, in quella stessa vita, mantenere intatta la voglia di prendersi in giro e ridere, prima di tutto di se stessi. "Non so nulla di numerologia, ma questo è il mio undicesimo album, contiene undici canzoni ed esce nel 2011", scrive Alvin nelle note di copertina. E, be', senza scomodare la teoria delle "anime radianti" e le sciocchezzaio sui messaggi degli angeli (11:11 sarebbe una delle loro sequenze numeriche preferite…), non possiamo che augurargli di continuare ad aumentare la cifra con gli stessi, splendidi risultati.


Interstate City
[Hightone, 1996]
Out In California [Shou! Factory, 2002]
Outtakes In California [self-rel., 2002]
The Great American Music Galaxy [Yep Roc, 2005]
Live From Austin, Tx. - Austin City Limits [New West, 2007]

Sono forse fin troppi i dischi dal vivo pubblicati da Dave Alvin dal 1996 ad oggi, ma almeno il primo è consigliabile a tutti. Interstate City è dinamite pura, uno dei live più tosti e trascinanti degli anni '90, che tra country-rock da favola (So Long Baby Goodbye, Look Out (It Must Be Love), Museum Of Heart, Waiting For The Hard Times To Go), rhytm'n'blues ora fradicio di swing (Mister Lee) ora asciutto e cinematografico (Thirty Dollar Room) ed esplosivi rock'n'roll à la Blasters (una ribollente Long White Cadillac, il formidabile medley gospel-roots Jubilee Train / Do Re Mi / Promised Land) potrebbe resuscitare un morto. I nove minuti e rotti di un'incandescente Romeo's Escape in orbita rock boogie, con lo swing del pianoforte e il fulmicotone delle chitarre a duellare senza sosta, sono l'apoteosi dell'Alvin formato rocker, col cuore, il cervello e la sei corde piantati negli anni '50 di Eddie Cochran, Fats Domino e Chuck Berry. Sei anni dopo, Out In California (e il suo gemello Outtakes In California, altre registrazioni live dello stesso tour vendute solo ai concerti o su internet) sfodera ancora energia da vendere, ma in una dimensione di maggior cautela roots: i brani più complessi e inclini alla lunga meditazione elettroacustica (su tutti una magnifica Andersonville) risultano in questa chiave ancor più efficaci, mentre le tirate rockiste e le rincorse rockabilly (da Haley's Comet a Wanda And Duane, da American Music a Fourth Of July) sembrano interpretate col freno a mano. Anche The Great American Music Galaxy nasce in veste di curiosità da acquistare durante le esibizioni live, ma la Yep Roc lo pubblica in via ufficiale dopo un solo anno di diffusione "carbonara": scelta alquanto opportuna, visto che il disco, molto più scuro, soulful e gospel del predecessore, assomiglia a un curioso quanto riuscito tributo all'arte di Little Walter, di Elmore James e del primo Elvis, con picchi stratosferici nel puro soul dell'acrobatica All Night Worker, nella jam bluesy e fumigante di un'incontrollabile Ashgrove, nel doo-wop rockato di una fantastica Trouble Bound, nel country-soul spumeggiante di una East Texas Blues imbastardita con la Greenback Dollar di Ray Harris, nel delirio terminale e rockinrollista di una Marie, Marie al cardiopalma. Live From Austin, Tx., pur risalendo al 1999, vede la luce nel 2007 e s'impone quale testimonianza più affidabile dei tour del periodo, fotografati non benissimo da un Out In California un po' a corto di fiato e qualità audio. La scaletta è più o meno quella solita degli show di allora, un diligente percorso tra l'heartland-rock vicino a John Mellencamp di Fourth Of July e Abilene e il country-blues sgranato delle varie Mary Brown, King Of California e Blackjack David, fino alle detonazioni tutte schiaffi boogie e unghiate r'n'r di Jubilee Train e Marie, Marie; la passione è anche lei quella consueta, ed è in fondo il primo motivo per cui, ripetizioni in scaletta o meno, di rinunciare a prodotti simili non ci passa neppure per l'anticamera del cervello.

 
:: Riepilogo (discografia)


Safety (Cavity Search 1996)   6.5
Romeo's Escape (Epic, 1987) 7.5
Blue Blvd. (Hightone, 1991) 7
Museum Of Heart (Hightone, 1993) 6.5
King Of California (Hightone, 1994) 9
Interstate City [live] (Hightone, 1996) 8
Blackjack David (Hightone, 1998) 8.5
Public Domain: Songs From The Wild Land (Hightone, 2000) 6
Out In California [live] (Shout! Factory, 2002) 7
Outtakes In California [live] (self-released, 2002) 7
Ashgrove (Yep Roc, 2004) 7.5
The Great American Music Galaxy [live] (Yep Roc, 2005) 8
West Of The West (Yep Roc, 2006) 8.5
Live From Austin, Tx. - Austin City Limits [live] (New West, 2007) 7.5
The Best Of The Hightone Years [antologia con inediti] (Shout! Factory, 2008) 8
Dave Alvin & The Guilty Women (Yep Roc, 2009) 8
Eleven Eleven (Yep Roc, 2011) 7.5

- Bibliografia
Nana, Big Joe And The Fourth Of July (Iliterati, 1996)
Any Rough Times Are Now Behind You - Selected Poems & Writings: 1979/1995 (Incommunicado Books, '96)




Dave Alvin & The Guilty Ones "Harlan County Line"


Dave Alvin "Blackjack David"



Dave Alvin "4th of July" (official video)


<Credits>