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Anarchico per natura, fra i cantori più sarcastici
e pungenti mai apparsi nel mondo della canzone country americana, Terry
Allen costituisce l'anomalia più iconoclasta del genere insieme al
conterraneo Kinky Friedman, frutti illegittimi di quella scena cantautorale
fra "nuovi cowboy" dall'atteggiamento hippie e "vecchi
fuorilegge" che ha invaso il Texas a metà anni '70, personaggi dallo
status artistico spesso inattaccabile. Cantore sublime della quotidiana
follia americana, grazie alle sue storie bizzarre dal confine messicano,
colme di causticità e sovente sconfinanti in una satira feroce e irriverente
sulla religione, Terry Allen ha impersonato la figura di uno storyteller
atipico, capace di grandi slanci poetici, così come di sprezzanti invettive
contro le menzogne del sogno americano. Su questa linea di condotta complessa
ha dato forma ai suoi personaggi dai margini della società, ballando lungo
il Border alla ricerca di perdenti nati, solitari senza meta, outlaws
nel senso meno scontato del termine, ribaltando i luoghi comuni di una
letteratura e di una simbologia Western troppo spesso asservita ad un
mito ingannevole. È stato soprattutto, nei suoi momenti migliori, un cane
sciolto, un artista poliedrico dalle mille espressioni, che ha alternato
le sue passioni musicali con l'interesse per le arti figurative e la poesia.
Pittore e sculture niente affatto per diletto, titolare di una borsa di
studio del Guggenheim, già sul finire degli anni '60 le sue creazioni
fanno il giro degli Stati Uniti, tanto da essere esposte in numerose gallerie
e musei prestigiosi, tra i quali è doveroso ricordare il Metropolitan
e il MOMA di New York. Nato a Wichita, Kansas da un padre apprezzato giocatore
di baseball nei St. Louis Browns, presto figlio adottivo e predestinato
del Texas dove si trasferisce con la famiglia, Allen cresce e studia a
Lubbock, grande cittadina persa nel nulla texano e spazzata dai
tornado, gli stessi che ciclicamente faranno la loro comparsa dentro le
canzoni del nostro, quasi fossero una presenza formativa di chi in quei
luoghi ha dovuto maturare la sua personalità. È anche la città di Joe
Ely, Buddy Holly, Waylon Jennings, di una fucina di talentuosi musicisti
texani che nel tempo cambieranno il volto del rock'n'roll e del country.
Allen si muoverà chiassosamente dentro e fuori questa tradizione, adottando
gli stilemi classici del genere eppure rovesciandone la prospettiva da
un punto di vista tematico: i suoi irosi walzer e honky tonk, in cui senza
eccezione svolge un ruolo centrale il pianoforte del protagonista, si
accodano alle regole di una country music purissima, salvo distorcerne
ogni prospettiva sul piano lirico. L'approccio "ciclico" di alcune sue
ballate, le saghe stravaganti che le popolano, l'impostazione cinematografica
della scrittura (la stessa che lo porterà a concepire nel tempo vere e
proprie colonne sonore per film sperimentali) sono il segnale di un artista
crescuto culturalmente nell'ambiente più bohemienne e libertario dei Sixties,
antitesi dell'industria nashvilliana. Qui sorge l'importantissimo contributo
di Allen, seppure più oscuro ed elitario di altri, nella costruzione di
un mito outlaw rivisitato e "intellettuale", irregolare del country che
sposta la concezione fino ad allora assai più conservatrice dei suoi esponenti,
parlando ad un pubblico spesso legato al rock'n'roll, alla cosiddetta
"Controcultura", persino alla nascente new wave della seconda
metà dei '70. È proprio il caso di Terry Allen, che in quel periodo
legherà il suo nome non soltanto all'amicizia con i coevi Joe Ely
(la band di quest'ultimo, con Lloyd Maines e Jesse Taylor, sarà onnipresente
nei suoi dischi) e Butch Hancock, ma anche con Lowell George dei Little
Feat (alla cui memoria dedicherà una appassionata canzone in Smokin' the
Dummy) e soprattutto con David Byrne, chiamato da quest'utlimo
alla condivisione della colonna sonora dell'opera True Stories. Sei dischi
ufficiali in più di trent'anni di carriera, più un paio di anomalie discografiche
(Amerasia e Pedal Steel), sono la testimonianza della sua ostinata indipendenza
morale e artistica. |
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Lubbock (on everything)
[Fate 1978] 1.
Amarillo Highway (For Dave Hickey)/ 2. Highplains Jamboree/ 3. Great Joe Bob (A
Regional Tragedy)/ 4. Wolfman Of Del Rio/ 5. Lubbock Woman/ 6. Girl Who Danced
Oklahoma/ 7. Truckload Of Art/ 8. Collector (And The Art Mob)/ 9. Oui (A French
Song)/ 10. Rendezvous USA/ 11. Cocktails For Three/ 12. Beautiful Waitress/ 13.
Blue Asian Reds (For Roadrunner)/ 14. New Delhi Freight Train/ 15. FFA/ 16. Flatland
Farmer/ 17. My Amigo/ 18. Pink And Black Song/ 19. Thirty Years Waltz (For Jo
Harvey)/ 20. I Just Left Myself |
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Squarciato il cielo del cantautorato texano con la "tragedia
del border" contenuta in Juarez, debutto spigoloso e acustico, Terry Allen
sogna in grande stile, portandosi in studio uno stuolo invidiabile dei migliori
talenti naturali del Texas contemporaneo: infatti, entrano in partita il produttore
principe del country rock regionale, Lloyd Maines, e la sua collezione
di chitarre e pedal steel, nonché Ponty Bone (accordion), Richard Bowden (fiddle),
Joe Ely e Jesse Taylor, questi ultimi in procinto di scatenare una sarabanda
rock'n'roll dalle parti di Lubbock. È proprio alla sua cittadina di adozione che
Allen dedica un'opera ambiziosa, originariamente un doppio vinile, in cui la scintilla
della sua scrittura accende una sconfinata vena poetica e sarcastica, ispirazione
dunque che lontana dal prosciugarsi repentinamente sfoggia in Lubbock
il suo vestito della festa. Gli arrangiamenti si sono fatti inevitabilmente più
corposi, un country rock arcigno e irriverente, tanto personale da prendere le
distanze sia dal movimento Outlaw, ormai al tramonto nei gusti del pubblico, sia
dalla Nashville più edulcorata (e Allen lo precisa chiaramente in Flatland
Farmer). Disseminato di colori messicani, di walzer struggenti e dissonanti,
di qualche svisata blues (specialmente nella voce) e di crude rimostranze rock,
Lubbock ridà senso alla country music con canzoni talmente personali e pungenti
da risultare fuori tempo. Il Texas, quale luogo geografico e della mente, la sua
gente (vividi i ritrati di The Girl Who Danced Oklahoma,
The Beautiful Waitress e The
Thirty Years Waltz), le terre di frontiera popolate da strambi cowboy
e freak in cerca di uno scampolo d'arte, tutto ciò viene descritto con uno scherno
che appartiene di diritto al personaggio Terry Allen: Amarillo
Highway è già un piccolo classico, The Wolfman
of Del Rio e Lubbock Woman cercano
uno scampolo di poesia a modo loro, I Just Left Myself
e My Amigo tendono la corda e i ritmi accesi
di New Dehli Freight Train e Truckload
of Art si fanno beffe delle regole del country rock per architettare
un nuovo ibrido musicale. Capolavoro nascosto e di culto della canzone americana
del periodo, siamo al crepuscolo dei '70, Lubbock rimarrà per troppo tempo merce
rara, disco che si incunea come un oggetto stravagante fra la tradizione per dettare
le regole di un ipotetico country "progressivo", come qualcuno oserà definirlo.
Ancora oggi costituisce un passo obbligato per comprendere la piccola rivoluzione
musicale messa in atto in quegli anni dalle parti del West Texas. |
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Smokin' the Dummy [Fate 1980]
Il
soldalizio avviato nel capolavoro Lubbock con la crema musicale del nuovo country
rock texano spinge Terry Allen a formare una fantomaticaa band a di svitati,
ribattezzata Panhandle Mistery Band (della squadra fanno parte ancora Jesse
Taylor e Ponty Bone), la quale, sempre sotto l'attenta direzione artistica
di Lloyd Maines, da alla luce un eccitante cocktail di tradizione e rock'n'roll,
Smokin' The Dummy. Arrivato sul proscenio degli anni '80 dopo l'epocale
predecessore, il disco soffre da sempre di un complesso di inferiorità, ma sgombrato
il campo dai confronti ingrati, si rivela al contrario il più speziato e divertente
della carriera di Allen. Se vogliamo è anche il più accessibile tematicamente
e "disimpegnato", il che non significa affatto poco ispirato o peggio
piegato alle insidie di un country rock di maniera. La dimostrazione evidente
di tutto ciò sono sempre le canzoni, acute e ironiche come un tempo ma con l'aggiunta
di una rock'n'roll band più affiatata e spaccona, questa volta allineata ad un
gusto persino sudista. The Heart of California
infatti apre i battenti con una dedica tutta speciale all'amico scomparso Lowell
George (Little Feat), proseguendo sui binari dell'elettricità nella rivisitazione
di Maybellene di Chuck Berry (proposta in
uno strampalato medley con What happened to Jesus).
Il capolavoro del disco però si intitola Texas Tears,
honky tonk godereccio che si accompagna alle chitarre incendiarie di Taylor in
Rock Truck Roll e The
Lubbock Tornado. * Ristampato dalla Sugar Hill nel 1993 insieme
a Bloodlines (vedi copertina)
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Human Remains [Sugar
Hill 1996] Il
ritorno è in pompa magna e segna un secondo mirabile capolavoro, seppure ammantato
da un minore fascino e senza il culto spasmodico di Lubbok. Tuttavia, dopo anni
di eclissi artistica, di ritiro necessario e voluto, di piccoli "espedienti" discografici,
Terry Allen riunisce idee e amici per dare senso ad un disco di splendide
confessioni. Human Remains, "resti umani", un titolo bellissimo
per un disco che viene subito salutato dalla critica come un rientro in grande
stile: ci sono tutti, da Joe Ely a David Byrne, da Lloyd Maines a Lucinda
Williams fino a Charlie Sexton, per rendere omaggio ad un cane sciolto, un
autentico maverick della country music e non solo. Le canzoni non raggiungono
forse le vette di ispirazione dei tardi anni '70, eppure hanno un fascino intatto
e persino un po' decadente e malinconico. Siamo allora nuovamente in viaggio lungo
i viali di Lubbock e i suoi temibili tornado, tra la polvere e i cactus del confine:
What of Alicia, Peggy
Legg e la cruda e folle Crisis Site 13 resuscitano
una forza espressiva ed una descrizione penetrante dei caratteri delle sue canzoni,
mentre Gone to Texas è un nuovo inno e Galleria
delle Armi uno struggente omaggio ad una storia tutta italiana, ambientata
durante la Seconda Guerra Mondiale. Il suono di Human Remains è
antico e moderno, familiare per i vecchi estimatori, ma sempre splendidamente
confuso, zoppicante e provocatorio, passando dalle fondamenta di uno sconclusionato
valzer country e retrò (Back to Black con
la seconda voce di Lucinda Williams, Buck Nacked,
After the fall, I, la commovente Little
Sandy) alle inevitabili digressioni spanish (Wilderness
of This World). Resterà purtroppo anche il suo ultimo grande exploit.
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Juarez [Fate 1975] Juarez
è l'esordio scarno e poetico del 1975, concepito come colonna sonora di una più
complessa operazione figurativa, comprendente dipinti e litografie. Parlare di
concept non è propriamente corretto, nonostante tutte le canzoni si dipanino seguendo
il percorso di due coppie attraverso Southern California, Colorado, e Messico.
Racconti ai margini della società, popolati da perdenti e fuorilegge. Sono dei
reietti, spinti ai margini del sogno americano, i protagonisti di Juarez: un ex-marinaio,
una prostituta di Tijuana, un meticcio di Los Angeles e la sua ragazza. La musica
di Allen possiede qualcosa di unico e affascinante: Juarez è crudo, spietato e
al tempo stesso romantico. La vita lungo il border, il confine labile tra la presunta
civiltà degli States e le tradizioni antiche del Messico, i paesaggi rosso fuoco
del Rio Grande, in mezzo figure e storie che sembrano uscire dai romanzi di un
altro grande texano d'adozione, Cormac McCarthy. Musicalmente il disco rispecchia
la desolazione di quei luoghi, appoggiandosi sulle note onnipresenti del piano,
a volte "arricchito" semplicemente da una chitarra acustica o da un mandolino
(Greg Douglas e Peter Kaukonen), e sulla voce arrochita dell'autore. Questo suono
spoglio basta e avanza per creare i suoi primi capolavori, tra cui Cortez
Sail, Border Palace,
Writing On Rocks Across The U.S.A e la dissacrante There
Oughta Be a Law Against Sunny Southern California. Nella ristampa curata
dalla Sugar Hill è presente un'accorata introduzione scritta dall'amico Dave Alvin
ed un epilogo, dal titolo di El Camino (versione
cantata e strumentale), appositamente inciso nel 2003 con Lloyd Maines e il figlio
Bukka Allen in sessione.
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Bloodlines [Fate 1983]
Il miracolo dei precedenti lavori non si ripete in Bloodlines
del 1983, stagione difficile per chi vuole mantenere la rotta della canzone d'autore
in Texas. All'euforia elettrica di Smokin' the Dummy si sotituisce in parte una
sorta di sperimentalismo sonoro (entrano in gioco nuovi strumenti tra cui tastiere,
sax, marimba e percussioni varie) che accompganerà in seguito le colonne sonore
e piece teatrali delle stagioni seguenti. In questo caso le canzoni non fanno
la differenza e per la prima volta Terry Allen si trova un po' a corto di idee,
nonostante le velleità di concept incentrato sul tema della religiosità (si vedano
le due versioni della title track). Vengono ripresi inaspettatamente due episodi
dall'esordio Juarez (tra cui una nuova accattivante versione di
Cantina Carlotta), ma nel complesso i pezzi del puzzle non si incatsrano
a dovere. Qualche colpo di classe viene ancora servito (Gimme
a Ride to heaven Boy e la commovente Ourland),
ma si ha spesso la sensazione che le qualità peculiari della musica di Allen vengano
sacrificate dagli arrangiamenti e dallo stesso pretenzioso progetto. È un lavoro
interessante sotto l'aspetto concettuale, ma di chiara transizione, nonostante
per alcuni sia da ritenersi fra i suoi momenti più ispirati. Di fatto all'indomani
della pubblicazione Terry Allen sparirà per parecchio tempo dalle scene ufficiali
della discografia, dedicandosi alle niente affatto collaterali attività artistiche
(pittura e scultura).
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Salivation [Sugar
Hill 1999] Nonostante
la sua proverbiale mancanza di prolificità, in soli tre anni dal come back di
Human Remains, Terry Allen ne propone un ideale seguito, Salivation. Il disco
presenta l'ennesima sarcastica riflessione sul mondo della religione, a partire
dal titolo e dalla copertina. Prodotto dal fido Lloyd Maines con l'apporto della
sezione ritmica della Joe Ely Band (Glen Fukunaga e Davis McLarty), e del figlio
Bukka Allen all'organo e alla fisarmonica, Salivation ripercorre atmosfere familiari
da "border music", le stesse per cui Allen è ritenuto giustamente un maestro.
L'energia del rock'n'roll invece è messa in disparte, facendo capolino solamente
nella title-track e in parte nelle atmosfere bluesy di The Show. Il cuore del
disco tuttavia è altrove, sorta di piccolo riassunto della sua carriera che richiama
da lontano l'aspetto letterario di Lubbock aggiungendovi alcuni esperimenti sulla
linea di Bloodlines. Le lunghe note di Billy the Boy e Cortez Sail (ripresa ancora
una volta da Juarez), vertici di Salivation, convincono per le sonorità scarne,
immagini di polvere e strade deserte. Un gradino più sotto le percussioni arabeggianti
di The Doll, a metà strada tra la terra texana e l'oriente, che fa coppia con
la satira feroce di Ain't no Top 40 Song. Rio Ticino è la prima border song dedicata
ad un fiume italiano, ricordo delle tournè nel nostro paese; Red leg boy un country
rurale che mette il buon umore con i suoi ritmi vivaci, incentrati su violino
e fisarmonica; X-mas on the Isthmus, infine, il solito scanzonato valzer d'altri
tempi (con tanto di trombone), a cui partecipa l'amico Guy Clark.
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The Best of
the rest (colone sonore, antologie...) Nel costante anticonformismo
e nella precisa eccentricità musicale che ha caratterizzato la carriera di Terry
Allen, una parte preponderante è occupata da alcune bizzarrie discografiche
concepite nella metà degli anni '80, quando il nostro pareva avere abbandonato
definitivamente gli stimoli del songwriter e del country rock del decennio precedente.
Nascevano allora esperimenti assolutamente fuori della norma come Amerasia.
Colonna sonora per un film del documentarista europeo Wolf-Eckart Buhler sulla
vita di alcuni reduci americani del Vietnam rimasti a vivere nel sud est asiatico,
raccoglie scampoli di canzoni e intrecci sonori fra il Texas e la Cambogia dove
Allen si recò al tempo per registrare alcuni episodi con musicisti locali. Suggestivo
seppure sconnesso, è tuttavia la produzione più interessante se raffrontata alla
strana ideazione di Pedal Steel, accompagnamento concepito per la
Margaret Jenkins Dance Company di San Francisco che prevede un unico brano di
mezz'ora abbondante in cui dialoghi, abbozzi di canzone e sottofondi musicali
trascinano l'ascoltatore in un mondo un po' stravagante, narrando la storia di
un suonatore di steel guitar. The Silent Majority resta per contro
una raccolta più stimolante: sottotitolata Terry Allen's Greatest Missed Hits,
si tratta di un compendio di scarti, outtakes, brani incisi a Madras in India
con musicisti del luogo, opere teatrali (Rollback) e recuperi dal citato Amerasia,
nonché la famosa Cocktail Desperado a suo
tempo regalata all'amico David Byrne per la colonna sonora di True Stories. Oggetto
curioso ma solamente per i fan accaniti, gli altri si potrebbero forse rivolgere
alla più coesa raccolta Best of the Sugar Hill Years, vera e propria
antologia, seppure un po' sbrigativa e comunque incentrata sul materiale ufficiale
composto fra Lubbock e Salivation. |
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Riepilogo (discografia) |
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