C'erano stati gli Uncle
Tupelo, poi fu il diluvio e si aprirono i cancelli dell'alternative
country, fra mille carneadi e qualche buona rock'n'roll band. La storia
che seguì dovreste conoscerla, quanto meno chi frequenta con regolarità
queste pagine: due creature nacquero dalle ceneri della band di Belleville,
Mirrouri, solitamente intrecciate come lo Yin e lo Yan del nuovo rock
delle radici americano. Da una parte i Son Volt di Jay Farrar,
dall'altra i Wilco di Jeff Tweedy: i primi idealmente insigniti del
compito di "conservare la specie", di indicare la via alla tradizione,
i secondi l'ala più progressista e rivoluzionaria, presto dediti a oltrepassare
le regole del genere. C'è un fondo di verità, ovvio, in tutto questo,
ma anche una vulgata che non sempre ha corrisposto al dato reale, visto
che Farrar più volte ha condotto la band su sentieri impervi (basti
pensare al sottovalutato The Search) e provato persino a sperimentare
fughe soliste poco comprese (Sebastopol). Sta di fatto che i Son Volt
catturati in Trace sono l'immacolata fotografia dell'alternative
country nell'atto della nascita come entità riconosciuta (gruppi,
locali, festival, finanche una rivista come "No Depression"),
definizione dei suoi canoni estetici e musicali.
Per questo, vent'anni dopo la sua concezione, il disco riceve il regolare
omaggio di una versione "expanded" e di una rimasterizzazione
che ne sancisca il ruolo di ambasciatore del genere. Come strascico
è previsto addirittura un tour denominato "Jay Farrar Performs
Songs Of Trace", che per tutto l'autunno vedrà Farrar esibirsi
in acustico con al fianco la steel del membro originario Eric Heywood.
Atto dovuto e come sempre anche mera operazione discografica, poiché
la suddetta opera di "ripulitura" del suono non aggiunge davvero nulla
a un disco pubblicato in pieni anni Novanta. Tant'è, facciamoci convincere
da questa nuova veste, curata espressamente da Farrar in persona e ripercorriamo
la strada di un album che allora, per qualche breve momento, sembrò
indicare nei Son Volt (e non nei Wilco contemporanei dell'esordio A.M.)
il vero cavallo di razza su cui puntare.
Nell'autunno inoltrato del 1994 Jay Farrar traccia il suo sentiero.
La pista che conduce a Trace è antica, profonda, arriva dal Minnesota,
Northfield. Soltanto pensando al luogo in cui si tengono le sedute di
registrazione il disco ha già in bocca il gusto acre del mito: "credo
che Northfield sia il luogo dove la banda di Jesse James è stata cacciata
indietro dai cittadini locali. Lo studio si trova dall'altra parte della
strada rispetto alla banca dove ci sono ancora i buchi dei proiettili
cerchiati sul muro esterno, probabilmente sparati dalla James Gang"
(Jay Farrar). La musica dei Son Volt pare impossessarsi di questi spiriti,
echeggiando una continuità con il passato che tuttavia, a differenza
di Tweedy e dei Wilco, non si allontana dalla sua naturale collocazione
umana e storica e per questo motivo offre una visione in apparenza più
onesta e autentica, attraverso canzoni che sono la traduzione di un'idea
di America fra l'epica e la realtà. Farrar ritorna insomma con un motto
d'orgoglio lungo gli argini del Midwest, dai quali sentimentalmente
non si è mai mosso di un millimetro: "Mio padre amava suonare le canzoni
di Hank Williams e di Jimmie Rodgers, e mia madre possedeva una discreta
collezione di dischi, grazie alla quale ho conosciuto Woody Guthrie,
Leadbelly e cose di questo tipo, fin dalla mia infanzia" (Jay Farrar).
Il suo sguardo si posa su un mondo fatto di back road e small town,
di cittadine che si chiamano Flat River, Times Beach, St. Genevieve,
avamposti della provincia inondati da fiumi, spazzati dalla pioggia,
massacrati dall'inquinamento, che rappresentano spazi geografici e della
mente, dove i personaggi si spostano ("Vorrei incontrarti dovunque il
sole dell'ovest incontra l'aria/ raggiungerò la strada, non guardandomi
mai indietro" - Tear Stained Eye)
e vivono secondo una ciclicità che appare persino immobile. Out
of the Picture dunque, come recita il titolo di una delle
canzoni, ancora una volta eclissato dentro un'America sottratta alla
vista, Jay Farrar fa la spola fra Belleville e Minneapolis, dove la
band debutta con i nuovi arrivati, i fratelli Jim e Dave Boquist,
fiancheggiatori ideali del suono che gli gira in testa, una sorta di
propaggine degli Uncle Tupelo di Anodyne, il disco dell'addio. C'è anche
il vecchio amico ritrovato Mike Heidorn, batterista storico proprio
degli Uncle Tupelo, che rivede in Jay un autore la cui prospettiva non
si è trasformata, semmai approfondita.
Nella
sua timidezza, in quella voce scura e chiusa, ripetitiva, finanche in una certa
incomprensibilità che da sempre accompagna i versi delle sue canzoni, il leader
dei Son Volt affronta comunque a viso aperto il recente passato. In Drown
sentenzia: "quando sei nel dubbio/ vai avanti". Così ha fatto, gli Uncle Tupelo
ormai un ricordo, cercando un riflesso in elementi che sono anche luoghi topici
del sentire americano, come un fiume, un treno, una strada: "un giorno saremo
insieme, più a sud della linea del treno/il fango del Delta sarà laggiù/ […] rimarrà
il ritmo del fiume" (Live Free). È un atteggiamento
innato quello che si rispecchia nella musica dei Son Volt, così come l'insistente
collegamento fra antico e moderno è una lettura del mondo che mette insieme nostalgia
e ricerca di un sentimento comunitario sul presente: "Beccando una stazione radio
all-night/ da qualche parte in Louisiana/ sembra di essere nel 1963/ ma al momento
suona come se fosse il paradiso" (Windfall).
Per il carattere stesso di questi versi, nel loro richiamarsi ad un senso di purezza,
per la natura evidente della musica che li accompagna, una sorta di declinazione
della maturità raggiunta in Anodyne, Trace diverrà subito il punto
di riferimento del sentire alternative country e di tutto ciò che con esso si
vuole intendere: il suono grezzo di un rock'n'roll avvolto nella dura terra americana,
il continuo incrociarsi di elementi tradizionali (gli echi del banjo, del violino,
del dobro) e lo stridore dell'elettricità delle chitarre, come a voler cristallizzare
un insieme di regole precise per il genere.
La
veste allargata di Trace offre innanzi tutto otto provini inediti, registrati
nel corso del periodo di pre-produzione: la consistenza è grezza, demo nell'autentico
senso dell'espressione, in prevalenza acustiche e per nulla essenziali. Sono semmai
la prova che l'anima di Farfar è racchiusa nella memoria americana, in una forma
di ballata che sa di antico, tra malinconie folk sparse e un rock'n'roll ruvido
che è uscito direttamente dall'underground degli anni 80. Ascoltare Drown,
Loose String o Windfall uscire dal magma dello studio può avere
il suo fascino soltanto per l'esegeta e il completista, il resto è già tutto perfetto
nell'album ufficiale. Meglio dunque indirizzarsi sul secondo disco, trascrizione
fedele di uno show tenutosi nel febbraio del 1996 al Bottom Line di New York,
cuore del Greenwich Village, dove la band presenta un repertorio in gran parte
costruito proprio sull'esordio Trace, aggiungendovi scampoli della passata stagione
con i Tupelo e un paio di inediti.
Partendo dal fondo si tratta dell'allora
sconosciuta Cemetary Savior, che pochi mesi
dopo finirà nella scaletta del secondo lavoro, Straightaways, e un'unica cover,
il classico country Looking At The World Through A Windshield di Del Reeves,
segnale del percorso di recupero della memoria roots operato da Farrar e soci.
L'esibizione in generale si muove lungo le coordinate di un suono riottoso, ancora
impresciso (dal vivo la band suonerà molto meglio nella seconda fase della sua
storia, quella di The Seacrh e American Central Dust), sporcato di chitarre rugginose,
tra l'amato Neil Young e il post-hardcore in cui si è formato il carattere del
musicista Farrar nel decennio precedente. Il tutto virato naturalmente verso la
tradizione: da qui spuntano le sintesi di Route, Catching On e Live
Free, o la desolazione acustica di Out of the Picture e Tear
Stained Eye, in fondo propaggini dell'avventura Uncle Tupelo. Guarda
caso il fantasma del passato rispunta nelle riproposizioni di Anodyne,
struggente brano immerso in atmosfere country rock solitarie e desertiche, o delle
più rustiche Slate e True To Life,
e ancora nella younghiana, livida Looking for a Way Out e nell'esplosione
country punk di Chickamauga.
A vent'anni di distanza Trace
e la sua speculare trasposizione dal vivo al Bottom Line suonano ancora come la
sintesi più stringente del concetto di rock dalla terra della "No
Depression": America perduta, scorci di provincia, radici e rock'n'roll.
Non è forse il disco migliore di quella nostalgica stagione (per molti
sì, a me pare invece che gli faccia difetto uno slancio musicale che band
come Jayhawks o Whiskeytown hanno meglio saputo incarnare), ma non è questo
il punto: è la sua sintesi fra immaginario e realtà americana a
farne un caposaldo del linguaggio del genere.