"Tom Petty e gli Heartbreakers suonano
una tipologia di rock senza pretese accuratamente confezionato":
così scriveva Fred Schruers (era il gennaio del 1983) nelle prime righe
della recensione di Long After Dark pubblicata sull’edizione
americana di Rolling Stone. L’espressione meat-and-potatoes rock
adoperata, allora, da costui, merita di essere ricordata non solo
in quanto intraducibile (dovrebbe indicare "l’essenza" delle
cose, però con un tono vagamente riduttivo), ma perché rappresenta quanto
di più lontano possa darsi rispetto al rock & roll di Tom Petty
con o senza gli Heartbreakers (soprattutto con), che della loro enciclopedica
conoscenza della musica popolare, del loro sconfinato virtuosismo e
della loro capacità di rimescolare epoche e stili seppero fare un’arte.
Certo, un’arte accessibile e mai respingente, comprensibile al grande
pubblico, quasi sempre accattivante anche per chi non avrebbe saputo
decostruirne l’eccelsa fattura. Ma non per questo meno raffinata, meno
visionaria o meno preziosa.
Ciò nonostante, molti album di Petty e degli Spezzacuori vengono oggi
ascritti al canone inferiore di una discografia fatalmente sottovalutata
dagli esegeti del rinnovamento sebbene portata in palmo di mano dagli
addetti ai lavori. Discografia nella quale, peraltro, prima della maturità
rootsy del solista Wildflowers (1994) o del granitico intreccio
tra Beatles e Nirvana del sofferto Echo (1999), molti tendono
a segnalare appunto Long After Dark (1982), o il controverso
Southern Accents (1985), oppure ancora lo scanzonato passo byrdsiano
del fortunatissimo Full Moon Fever (1989), nella classifica degli
episodi minori, magari baciati dalla popolarità eppure deficitari in
termini di peso specifico. Almeno per quanto riguarda il trittico supervisionato
con smalto meravigliosamente "classico" da Jimmy Iovine
(già in cabina di regia per Bruce Springsteen, Patti Smith, Dire Straits,
Stevie Nicks etc.) e comprendente, oltre al citato Long After Dark,
l’inarrivabile Damn The Torpedoes (1979) e il cupo Hard Promises
(1981), questo giudizio andrebbe completamente ribaltato, e i dischi
inseriti nel tentativo di Petty e del suo produttore di trasportare
l’entusiasmo adolescenziale del rock and roll delle origini, ma anche
la sua malinconia così spesso trasfigurata nei racconti (metaforici)
sulla "fine dell’estate" appartenuti ai Beach Boys come a
Janis Joplin, all’interno del decennio che più di ogni altro sembrava
volerne sterilizzare le remote emozioni attraverso una forzata robotizzazione
di suoni e apparenze.
Long
After Dark (Deluxe Expanded Edition)
Long
After Dark (Double Vinyl Deluxe Edition)
Beninteso, questa non è e non vorrebbe essere
la solita requisitoria sull’artificiosità degli ’80 (dieci anni forieri
di tanta, ottima musica benché indubbiamente problematici sotto molti
aspetti), bensì la semplice constatazione di come Iovine e l'artista
della Florida, cresciuti immergendosi nella cultura pop dei ’60 e recuperandone
in fretta gli antecedenti, cercassero di aggiornarne gli schemi con
un taglio personale, tentando di conservarne lo spirito pur rinfrescandone
la forma. E infatti, dopo la sbornia mainstream dello scintillante Damn
The Torpedoes e la celebrazione di Buffalo Springfield e altri gruppi
dell’area californiana articolata nella scontrosa scaletta di Hard
Promises, quest’ultimo segnato dal gesto punk con cui il suo artefice
si oppose all’incremento del prezzo di listino - il cosiddetto superstar-pricing
- caldeggiato dalla distributrice MCA, in Long After Dark apparvero
per la prima volta i sintetizzatori, maneggiati con grande cura dal
fidato tastierista Benmont Tench e usati per conferire alle canzoni
un’atmosfera distopica, da apocalisse incombente, confermata anche dalla
dimensione visiva steampunk del (lungo) video girato per promuovere
You Got Lucky (in rotazione costante
sulla neonata MTV).
Non solo, perché l’immaginario post-apocalittico,
simboleggiante una fase aurorale del r’n’r a rischio di scomparire,
ritornò anche nell’immediatamente successivo Heartbreakers Beach
Party (1983), esordio dietro la macchina da presa, in 16mm, dell’ex-giornalista
Cameron Crowe, andato in onda su MTV ma giudicato troppo strano e sperimentale,
nei suoi toni da fanta-western alla John Carpenter, per la programmazione
dell’emittente. Da allora il docu-film non si è più visto, le bobine
originarie ritenute smarrite. Restaurato a sorpresa quest’anno, con
19 minuti di contenuti aggiuntivi, sarà disponibile in sala e su piattaforma
a partire dalla fine ottobre; nel frattempo, proprio Crowe, lo stesso
Iovine e il critico David Fricke si sono occupati delle liner-notes
dell’edizione deluxe di Long After Dark, che anche in
questa tripla ristampa - il disco originario, un gemello di inediti
e rarità, un Blu-ray con missaggi in Dolby Atmos e alta risoluzione
dei precedenti contenuti - si conferma tra le opere più sottovalutate,
nonché tra quelle meglio invecchiate, nella produzione discografica
di Tom Petty.
Primo album degli Spezzacuori dove il basso di Ron Blair (presente in
un solo brano) viene sostituito con quello di Howie Epstein,
tra l’altro di rara efficienza nell’infondere alle armonie vocali del
gruppo un’espressività tipicamente folk-rock, Long After Dark
suona ancora secco, essenziale, a tratti nostalgico e soprattutto disilluso,
incentrato com’è non tanto su racconti o narrazioni, ma sul ritratto
di sensazioni, impressioni e modi di sentire. Gli stessi del cantante
e compositore, venuto dai bassifondi del Sud e da una situazione familiare
disastrosa, aggrappatosi alla musica come a una promessa taumaturgica
di guarigione, e all’età di 32 anni occupato a fronteggiare il disincanto
della vita di coppia e le frustrazioni della vita quotidiana, due temi
ricorrenti nei pezzi più avviliti (A Wasted Life), incupiti (Straight
Into Darkness), inquietanti (You Got Lucky).
Straight
Into Darkness
Between
Two Worlds (French TV)
Nonostante la propensione all’enfasi e agli inni
del passato recente si sia trasformata nel sibilante ringhiare di dieci
brani in cui le sfumature prevalgono sulla pura energia, Long After
Dark è pur sempre un (grande) disco rock, inaugurato dal ruggito
di A One Story Town, concluso dal
romanticismo springsteeniano di A Wasted Life e con in mezzo
una serie di episodi assolutamente rimarchevoli. Bellissimo, per esempio,
è il connubio tra Byrds e Fleetwood Mac della sferragliante Straight
Into Darkness, indimenticabile il loop di batteria creato
da Stan Lynch per rendere più minaccioso il clima sonoro di You Got
Lucky, da antologia il la cavalcata pop’n’roll di Change Of Heart,
superbo il tiro stonesiano di We Stand A Chance,
perfettamente in parte la new-wave dal cuore umano di Finding Out,
sanguinario il groviglio di chitarre intorno al quale si sviluppa la
drammatica Between Two Worlds.
A convincere, come detto, è soprattutto l’impressione, restituita attraverso
canzoni non rassegnate né raggomitolate su loro stesse, di una sensibilità
ferita, non solo quella del Petty adulto e alle prese con le incertezze
della maturità, ma anche quella dell’ascoltatore onnivoro, consapevole
di come la fibra nervosa del r’n’r - il suo sangue - corra il rischio
di decomporsi se non alimentata dal country, dal blues, dal folk e dal
gospel che, unendosi, ne avevano permesso la nascita. Non a caso sono
le stagioni in cui Petty e gli Spezzacuori infarciscono di brani altrui
(dai sempiterni Isley Brothers di Shout fino a Richard Berry,
Byrds, Ray Charles, Troggs, Bobby Troup, Buddy Holly, Chuck Berry, Dave
Clark Five, Gram Parsons etc.) le setlist delle proprie esibizioni,
quasi insistessero sulla necessità di riscoprire, condividere e alimentare
un patrimonio collettivo.
Ecco, allora, che il secondo CD della ristampa di Long After Dark
si apre proprio con una rilettura, proposta ai telespettatori della
TV francese, della Stories We Could Tell di John Sebastian, una
dichiarazione d’amore per l’arioso e melodico folk-rock della California
a cavallo dei ’60 e ’70 (riapparirà anche, in versione un po’ troppo
levigata, sul primo album dal vivo "ufficiale" dei nostri,
Pack Up The Plantation: Live! del 1985) interpretata alla grande.
Prevedo l’obiezione (sensata) circa l’assenza di sorprese vere e proprie:
in effetti, chi già possieda il cofanetto Playback (1995), la
monumentale The Live Anthology (2009) o anche solo la versione
doppia di An American Treasure (2018), potrebbe avvertire la
sensazione di rivangare un repertorio più o meno già noto.
E anche se la realtà è all’incirca questa (soprattutto per quanto riguarda
outtakes notissime quali la pur splendida Turning
Point o la travolgente Keeping Me
Alive, presentata però in una versione live), come non dimenticare
ogni perplessità, nonostante tutto, davanti allo spumeggiante countreggiare
di Never Be You (la porterà in classifica Roseanne Cash tre anni
più tardi, ma solo dopo averla registrata per Streets Of Fire,
"favola rock" diretta da Walter Hill nel 1984), al proto-reggae
di Don’t Make Me Walk The Line, al fuoco e alle fiamme di una
Ways To Be Wicked poi donata ai
Lone Justice, all’arrangiamento alternativo (molto più lirico e solenne)
di Between Two Worlds, alle rasoiate rockinrolliste della feroce
One On One o al beat schiacciasassi di una Wild Thing intrisa di
spirito garagista?
Il fatto è che Tom Petty, scomparso nell’ottobre del 2017 a causa di
un’overdose di analgesici, benzodiazepine e antidepressivi, ci manca,
guardiamo oggi al suo perenne stato di grazia come a un miracolo irripetibile
e la sua assenza ci fa sembrare meno ricca e affascinante anche la scena
contemporanea. Il cui spettacolo non proprio consolante, in ogni caso,
ci porta a constatare questo: edizione deluxe o meno, se uscisse, adesso,
un lavoro della caratura di Long After Dark, ognuno di noi si
spellerebbe le mani per gli applausi e si sperticherebbe in temerarie
capriole. "Minore" ditelo a qualcun altro.