[Home] | ||
|
Condividi
|
Springsteen/
E Street Band - di Marco Denti - Si racconta che il colore
dell’acqua in fondo ai reattori nucleari assuma delle sfumature azzurre
tanto brillanti da apparire trascendentali. Non c’è niente di magico:
la particolare tonalità è dovuta all’effetto Cerenkov, una rifrazione
che deriva dalla particolare condizione fisica delle particelle, ma
l’abbagliante visione ha un senso perché spaccare l’atomo apre porte
imprevedibili, tanto divine quanto diaboliche. Nel calcolo delle probabilità,
che sono molteplici, almeno quanto le opinioni, si nasconde una verità.
Tutta la sicurezza dell’energia atomica è che il rischio è limitato,
non che non esiste. Non succede mai, ma quando succede, l’imprevedibile
diventa inevitabile. I danni sono apocalittici e comunque si tratta
di qualcosa che va oltre le possibilità umane, o di quella che Rachel
Carson definiva “la natura reale della vita”. Come avrebbe detto in
seguito Springsteen, è una Roulette e quando esce il numero
sbagliato come a Three Mile Island, Cernobyl’ o Fukushima, “all’improvviso
è tutto fuori controllo”, ed è lì che ti ricordi che sarebbe meglio
non dividere quello che è indivisibile. Come succede spesso, il
MUSE, i musicisti uniti per un’energia sicura, che avevano in
Jackson Browne il suo protagonista più attivo, non fu l’inizio, piuttosto
la fortunata condensazione di una sensazione più diffusa, e della percezione
di una politica energetica frutto di una scelta imposta, non condivisa,
e particolarmente azzardata. Dal punto di vista musicale partiva dalla
West Coast per trovare casa sulla costa opposta, quella atlantica, a
New York, ma la distanza che venne colmata nell’autunno del 1979 non
era soltanto geografica. Se è vero che dalle tradizioni idealiste ed
ecologiste della California fiorì gran parte del movimento, l’incrocio
con Springsteen è stato determinante e, almeno sotto il profilo
artistico, ha dato una sana scossa tellurica e quel po’ di elettricità
per accendere il Madison Square Garden. Sul palco, come ogni altra volta,
a quel punto le motivazioni diventano persino relative: Bruce ha qualcosa
di messianico, come se volesse portare tutta la città da qualche parte
e fosse disposto a provarci tutta la notte. La perentoria dichiarazione
d’intenti all’inizio del concerto, con quella versione di Prove It
All Night incollata a Badlands e a Promised Land in
un trittico iniziale che è un atto di forza non lascia margini di dubbio. Dentro gli show, la sequenza delle canzoni rappresenta con accurata precisione tutta la teatralità del momento e, anche nei suoi momenti più festosi (Sherry Darling, Born To Run, Rosalita, Stay), la tensione resta elevata, fino a The River. Nel contesto, è un po’ lo spartiacque e forse anche la miglior rappresentazione di quelle esistenze, con i loro piccoli e grandi drammi, minacciate da qualcosa di indefinibile, che non lascia nessuna speranza. A quel punto, il tono pare assorbire le invettive e le invocazioni e nel corso di Thunder Road e Jungleland, l’inizio e la fine, così accostate, le strade in fiamme assumono un’altra prospettiva, ma i poeti, sì, per una volta hanno avuto voce in capitolo. Ma quando cominciano a sferragliare, Bruce cavalca l’onda senza tanti riguardi: la E Street Band è una macchina infernale e lui senza dubbio l’autista senza paura, ma in quel particolare frangente è evidente che la vera forza sta in quella simbiosi. Anche a distanza di anni, l’impressione è che possa succedere qualsiasi cosa e che la Promised Land diventi una realtà lì proprio nel cuore di una città dove le promesse vengono smentite ogni giorno e ogni notte, e con un pericolo mortale e invisibile nell’aria là fuori. E così il Madison Square Garden diventa un rifugio, un’arca, un’oasi. Poi comincia il party e la celebrazione dei misteri gaudiosi del rock’n’roll. L’esibizione di Springsteen è la prova che in quel momento era l’unico (insieme a Tom Petty) ad aver intercettato e interpretato a modo suo l’energia del punk e di New York, andando però a vedere fino in fondo le sue radici, che riportano inevitabilmente allo spirito primordiale del rock’n’roll come, in modi diversi ma contingenti, il Detroit Medley, Quarter To Three e Rave On sono lì a testimoniare, al di là dei fuochi d’artificio e delle fibrillazioni cardiache. È quello che, allora,
era e aveva Springsteen: l’essere un trait d’union tra passato e futuro,
e viverlo fino in fondo in un presente illimitato. Il rito è essenzialmente
pagano, gioioso e ribelle, e così resterà nei secoli dei secoli. All’arrivo
di Quarter To Three, il Madison Square Garden è una polveriera
pronta a esplodere di felicità, ma anche in questo caso c’è un’ombra
in agguato. È nell’orario della canzone che nell’evocare le stesse wee
wee hour ricorda il motivo per cui erano tutti lì. L’emergenza a Three
Mile Island è cominciata alle quattro di notte, una coincidenza dovuta
a una serie di fattori, una reazione a catena di inadeguatezze, errori,
malfunzionamenti che, in ogni sistema complesso, generano una rottura
dello schema generale. È lì che il sociologo Charles Perrow, uno dei
maggiori critici del nucleare, arrivava alle stesse conclusioni di Roulette,
definendo il rischio che un incidente “inaspettato, incomprensibile,
incontrollabile e inevitabile”, sia congenito in tutte le realtà strutturate.
C’è questa affinità (la sola, tra le infinite divergenze) tra un rock’n’roll
show e un reattore atomico. È un circuito chiuso in cui mille dettagli
devono coincidere per funzionare.
|