Mickey
Newbury An
American Trilogy
[Saint Cecilia Knows
/ Drag City 2011
- 4CD Box]
In più di mezzo secolo di musica popolare, parecchi album (tra
i quali due che, per ragioni affettive, considero speciali: Ocean
Rain degli Echo & The Bunnymen e North Marine Drive
di Ben Watt) hanno esplorato il tema della pioggia, di volta in
volta raffigurante il lavacro della catarsi o il flagello delle
tristezze senza consolazioni, eppure nessuno può dirsi "bagnato"
come Looks Like Rain, disco dove ogni canzone, attraverso
l'uso dei cimbali e di altre percussioni, richiama l'effetto della
pioggia battente e del frinire dei grilli dopo l'acquazzone. Non
solo: gli intervalli, pieni, tra un pezzo e l'altro contengono
le repliche di altri fenomeni atmosferici provenienti da un album
di samples, One Stormy Night di tale Mystic Moods Orchestra, registrato
nel 1966 per la stessa Mercury per cui incideva pure Mickey
Newbury.
Primo di una serie di lavori realizzati presso i Cinderella Sound
Studios di Madison, Tennessee, Looks Like Rain arriva dopo l'esordio
di Newbury per la RCA, un Harlequin Melodies('68)
troppo rifinito dalla label e dal produttore Felton Jarvis, entrambi
smaniosi di confermare su disco il successo già ottenuto da Newbury
per conto terzi: all'epoca, infatti, sia Tom Jones (Funny,
Familiar, Forgotten Feelings) sia il vecchio compagno di scuola
Kenny Rogers (Just Dropped In (To See What My Condition Was
In)), senza dimenticare Solomon Burke (Are My Thoughts
With You), hanno conosciuto l'onore delle classifiche di vendita
grazie a brani scritti da Newbury, perciò, agli occhi dell'etichetta,
si tratta soltanto di confezionare un prodotto che suoni più o
meno identico ai fortunati singoli che l'hanno preceduto. Le cose,
naturalmente, non sono così semplici, perché il ruvido intimismo
delle ballate di Newbury mal si coniuga con la grandeur degli
arrangiamenti impostati per l'occasione, sicché il risultato finisce
con lo scontentare tutti, pubblico, casa discografica e artista.
Quest'ultimo, tuttavia, ancora forte dei trionfi sottoposti alle
voci altrui, riesce comunque a strappare alla Mercury un contratto
all'insegna della più sensazionale libertà creativa, ottenendo
l'opportunità di scegliersi, per i prossimi lavori, musicisti
e produttore, sale d'incisione e team artistico.
È in questo contesto, nel relax di un'estate di registrazioni
meticolose tra il drumming di Kenneth Buttrey e l'armonica di
Charlie McCoy, tra le percussioni di Farrell Morris e le chitarre
delicatissime di Jerry Douglas, di Wayne Moss e del titolare (abituato
a impiegare nient'altro che una sei corde Ramirez invariabilmente
accordata in "drop D", cioè con la corda più bassa "dropped",
scaricata, dal Mi al Re), che Looks Like Rain prende vita, una
vita folkie e vagabonda come quella di tanti album targati Elektra
(penso alle opere di Tom Paxton, David Blue o Fred Neil) che l'anno
anticipato oppure seguito, ma con una qualità "cinematografica",
descrittiva, pittorica ed evocativa ancor più accentuata. Dall'amarezza
folk di She Even Woke Me Up To Say Goodbye
(diverrà una hit nelle mani di Jerry Lee Lewis) allo storytelling
countreggiante di T Total Tommy (una
specie di paradigma per le future composizioni di Guy Clark),
in Looks Like Rain non c'è una sola nota sprecata, né una parola
che non suggerisca un'intera costellazione di storie, ricordi
e frammenti di vita.
Laddove 33rd Of August, l'intransigente
confessione di un uomo violento cui "i demoni ballano e cantano
le loro canzoni" nella testa, e la celeberrima San
Francisco Mable Joy, più volte rimaneggiata vicenda
di "un ragazzo di campagna della Georgia" che impazzisce per una
ragazza conosciuta sullo strip di San Francisco, rappresentano
l'apice della scrittura del nostro poiché illustrano in modo esemplare
come si possa condensare un intero romanzo in una singola strofa,
I Don't Think Much About Her No More
contrassegna forse l'episodio più rappresentativo sotto il profilo
stilistico, una spoglia folk-ballad dove l'intensità viene ottenuta,
e in un certo senso scolpita, grazie alla secca essenzialità degli
strumenti e al talkin' struggente di Newbury, capace di conferire
alla pausa tra lo "You know" (sapete) e il "I don't think much
about her no more" (non penso più tanto a lei) una profondità
di sospiro, non lontana da quelle di un Kris Kristofferson o di
un Johnny Cash, simile allo spalancarsi di un abisso.
Sono tutti brani all'insegna di un'irreparabile malinconia, la
stessa che ha sempre contraddistinto tutte le produzioni di questo
texano atipico affiliatosi appena ventenne alla prestigiosa Acuff/Rose
Publishing - la più importante fabbrica di canzoni nel mondo country
del dopoguerra - e altrettanto presto stufatosi delle formalità
dello show-business (del 1974 il ritiro, mai interrotto se non
da qualche sporadico dispaccio discografico, nei monti dell'Oregon),
spesso paragonato, con ragione da vendere, a una traduzione country
del Frank Sinatra introverso, ubriaco e annientato dei magnifici
Only The Lonely ('58) e No One Cares ('59). Raffronto calzante
e allo stesso tempo riduttivo per un Newbury che, non pago di
scriversi da solo tutti i pezzi interpretati, ha pure formulato
consigli cruciali per Roger Miller, Waylon Jennings e Townes Van
Zandt.
Oltre ciò, non va sottovalutata la sua sempiterna battaglia a
favore della dignità della musica country ("Cerco di scrivere
qualcosa di semplice per persone normali: questa, per me, è l'essenza
del country"), che peraltro contribuì non poco a far entrare nella
sua fase adulta, in pratica colmando da solo il gap creatosi tra
l'autodistruzione selvaggia di Hank Williams e Johnny Cash e le
banditesche rivoluzioni del movimento outlaw, rispetto ai quali
rappresenta una sorta di imprescindibile anello di congiunzione.
Grazie a Mickey Newbury, infatti, la tradizione rootsy
diventa non solo l'angolo dello sfogo per attempati cowboys sofferenti
di latitanza da accoppiamento, bensì il più appropriato dei megafoni
cui affidare professioni personali, annotazioni politiche (repubblicano
convinto, Newbury ha tramandato alla storia alcuni battibecchi
leggendari con l'amica liberal di sempre, ovvero Joan Baez), radiografie
storiche e, soprattutto, voragini interiori. "Molte persone, ascoltando
le mie canzoni, avranno pensato, mio dio, deve avere una bottiglia
di whisky in una mano e una rivoltella nell'altra. Non è così.
Mi limito a scrivere della mia tristezza" ebbe a dichiarare il
nostro, e in effetti nel suo canzoniere è impossibile non rinvenire
un'amarezza e un disincanto, riconducibili ad acclarati e mai
sconfitti disturbi depressivi e bipolari (quella strana forma
di sofferenza psichica, insomma, che induce chi ne è affetto ad
alternare momenti di euforia incontenibile ad altrettanto repentine
parentesi di chiusura totale), che lo rendono più vicino a un
Dylan o a un Leonard Cohen che a tanti colleghi di stretta osservanza
country.
All'eccentricità
bipolare o al regime della pazzia pura: non si sa a quale dei
due attribuire l'azzardo dell'arcinota An
American Trilogy che apre il successivo 'Frisco
Mabel Joy ('71), secondo album registrato ai Cinderella
Studios e primo pubblicato da Newbury presso casa Elektra, cui
ha venduto anche i diritti di Looks Like Rain per la cifra,
allora spropositata, di 20'000 dollari. Le polemiche suscitate
all'epoca dal brano possono sembrare, viste col senno di poi,
all'acqua di rose, ma all'inizio degli anni '70 cucire assieme
tre brani risalenti ai tempi della Guerra Civile tra Nord e Sud
in un unico medley, fregandosene delle accuse di correttezza politica,
equivaleva poco meno che a una dichiarazione di guerra alle convenzioni
dei radical-chic da poco sbertucciati dalla penna di Tom Wolfe
in un corrosivo articolo per il New York Magazine.
Dei tre segmenti
racchiusi in An American Trilogy uno, All My Trials, era
uno spiritual probabilmente nato nelle Bahamas e poi trasformatosi
dapprima in canto delle chain-gang di colore costrette alla carcerazione
più per il pigmento della pelle che per i reati effettivi e solo
dopo, grazie alle trascrizioni effettuate da Odetta e Peter, Paul
& Mary, in uno dei pezzi della colonna sonora ufficiosa del movimento
per i diritti civili dei '60; l'altro, Battle Hymn Of The Republic,
era una broadside ballad modellata sul tradizionale folk John
Brown's Body. La bomba, però, si chiamava Dixie, primo
dei tre brani nonché propiziatrice di una serie infinita di controversie:
scritta nel 1859 dal virginiano Daniel Decatur Emmett, divenne
pochi anni dopo il motivo accompagnatore di ogni marcia delle
truppe confederate durante la guerra di secessione e, stavolta
80 stagioni dopo, l'inno di qualsivoglia politico populista della
Bible-belt abbia inteso vellicare paure, orgoglio e fobie biancocentriche
degli elettori del profondo sud.
Per dire delle diatribe sorte in parallelo alla diffusione del
pezzo di Newbury, sappiate che più di un suo concerto del periodo
venne boicottato nientemeno che dalle Black Panthers, indispettite
dal fatto che qualcuno avesse realizzato un 45 giri contenente
quello che era stato per lungo tempo il refrain ufficiale del
Ku Klux Klan. Per esacerbare la querelle ci volle Elvis Presley,
che innamoratosi della canzone la trasformò in uno dei pilastri
delle sue esibizioni a Las Vegas, proponendone una versione parecchio
pompier e tuttavia utile ad ammorbidirne la carica dirompente.
Da lì in poi, An American Trilogy divenne una specie di celebrazione
nazionalpopolare, forse lontana dalle intenzioni spiritualiste
di Newbury ma amata e rispettata da generazioni di musicisti,
spesso anche in grado di coglierne fino in fondo la natura più
intima, quella, cioè, di panegirico alla Ralph Waldo Emerson sul
carattere inclusivo, idealistico e trascendente della costituzione
americana.
Si intitola proprio An American Trilogy lo splendido
cofanetto approntato dalla Drag City per rendere omaggio alla
grandezza dei tre album concepiti da Newbury ai Cinderella Studios:
oltre alla trilogia in esame, riportata allo splendore di un suono
digitale di rara pulizia, nel box trovano spazio un corposo libretto
di 100 pagine (con testimonianze di prima mano da parte di personaggi
come Kris Kristofferson, David Allan Coe, Larry Jon Wilson e Will
Oldham), una mappa degli spostamenti dell'autore nel territorio
americano (da Beaumont, Texas, a Mobile, Alabama, da Jacksonville,
Florida, a St. Louis, Missouri) recante nel retro tutti i testi
delle canzoni e un quarto cd, Better Days, infarcito
di demos, rarità e inediti registrati tra il '69 e il '73.
Dei tre lavori originari, 'Frisco Mabel Joy, anche
in virtù di An American Trilogy, è forse il più conosciuto (undici
anni fa conobbe persino l'onore di una rilettura track by track
a più mani organizzata da Peter Blackstock, il fondatore della
rivista No Depression), nonché il più significativo circa le sfumature
della scrittura di Newbury, che ricorrendo a una strumentazione
più country rispetto al predecessore scontorna con la felicità
del classico l'honky-tonk delizioso di How
I Love Them Old Songs, il country-rock accorato delle
monumentali The Future's Not What It
Used To Be, il blues elettrico della selvatica
Mobile Blue e il profumo d'Irlanda della drammatica
How Many Times (Must The Piper Be Paid
For His Song) spruzzando ogni canzone con una fragranza
inconfondibile a base di folk-blues, country del crepuscolo e
visionarie schegge pop.
Meno noto, ma altrettanto bello, Heaven Help The Child
('73), che nella title-track riprende lo schema tripartito di
An American Trilogy affiancando le vicende di tre diversi personaggi
("Maggie the bohemian", una donna in cerca della propria autodeterminazione,
lo scrittore Francis Scott Fitzgerald in procinto di partire,
dalla Parigi degli anni '20, verso l'Atlantico e un Generale dell'esercito
intento a riflettere sui costi umani delle battaglie condotte)
e firma il proprio capolavoro assoluto, una superba prolusione
folk arrangiata in un cinemascope di taglio operistico sui "corsi
e ricorsi storici" di vichiana memoria. Sono però irresistibili
anche i numeri più rootsy, a cominciare dal bluegrass dell'incalzante
Why You Been Gone So Long per
finire nel country-pop intriso di soul dell'adorabile Sunshine,
e quelli più raccolti, dal ripiegamento quasi doloroso della toccante
Sweet Memories all'asciuttezza
folkie di una Cortelia Clark che
anticipa la renaissance della canzone d'autore texana di quegli
anni (Desperados Waiting For The Train di Guy Clark nasce letteralmente
qui, visto che le storie raccontate sono identiche, ma l'influenza
di Newbury, del resto, non si sarebbe limitata al nativo Texas:
suo fan insospettabile, al punto di rileggerne svariati pezzi,
è stato, tra gli altri, Scott Walker).
Molti dei sidemen coinvolti in questi dischi di Newbury apparivano
anche nei crediti del dylaniano Blonde On Blonde, ma lo stile
di Looks Like Rain, 'Frisco Mabel Joy e Heaven
Help The Child ha ben poco a che fare con quello del Dylan
del '66: ciascuno di essi, costruito con pazienza certosina sulle
poche e dolenti note di qualche chitarra in fingerpicking e sul
tenore accorato di Newbury, sottrae piuttosto che addizionare.
Ancor più disadorno, poi, è il disco di inediti, che riporta cinque
publishing demos alquanto grezzi, seppure contraddistinti da una
rude efficacia, di pezzi già noti, un singolo poco conosciuto
(la versione mono di Sunshine, risalente alle sessions di Looks
Like Rain), due provini casalinghi (tra i quali la lisergica Flower
Man) e cinque brani, molto interessanti, registrati
per l'emittente KRHM-FM di Los Angeles (bellissima e scanzonata
I Don't Wanna Rock e altrettanto
buffa l'inedita I Don't Want Me No Big
City Woman, preziose testimonianze di un Newbury meno
tetro del solito).
Nonostante nella carriera di Newbury restino diverse cose da riscoprire
ad ogni costo (consiglio perlomeno lo stupendo Live At Montezuma
Hall ['73] e il devastante concept A Long Road Home ['02], licenziato
l'anno della morte del nostro tramite la personale etichetta Mountain
Retreat), An American Trilogy costituisce un punto
di partenza imprescindibile per scoprire uno di quegli speciali
artisti la cui produzione, dopo quarant'anni di oscurità, continua
a suonare fresca, originale e innovativa come lo era al momento
della pubblicazione. Non perchè sia Newbury a suonare contemporaneo:
siamo noi, come diceva Giuseppe Pontiggia riguardo ai classici,
"che lo diventiamo di loro", contemporanei di una dimensione eterna
di pienezza creativa. Spostate il calendario agli anni '70 di
An American Trilogy, non ve ne pentirete. (Gianfranco Callieri)