Sognatore del folk americano, di quelli dimenticati
in qualche “sottoscala” delle nostre passioni, non nascondiamo la sorpresa
di risentire il nome di Richard Meyer, protagonista di questo
“lost album” che va ad arricchire la messe di pubblicazioni della New
Shot records, soprattutto di quelle non strettamente legate alle esibizioni
dal vivo, essendo queste ultime la parte più cospicua del catalogo.
Ed è anche una sorpresa constatare quanto sia prezioso questo disco,
inaspettato nella sua maturità artistica, quella che in vita non gli
aveva certo portato successo.
Meyer si era forse sempre considerato più un motivatore, l’anima dietro
le quinte di una scena, quella che ruotava intorno al Greenwich Village
newyorchese della prima metà degli anni Ottanta, e che egli stesso aveva
contribuito a coalizzare gestendo le pubblicazioni (rivista ed etichetta)
che andavano sotto il nome di Fast Folk, fondata dall’amico Jack
Hardy e mantenuta in attività per un decennio dallo stesso Meyer con
il contributo di molti amici, più e meno giovani protagonisti di quella
stagione. Sarà che il nostro Richard aveva più la stoffa del poliedrico
artigiano della canzone che non quella del songwriter a tempo pieno,
“distratto” anche dalle altre sue passioni artistiche, che andavano
dalla pittura alla scenografia, tanto è vero che la produzione discografica
ufficiale si fermava fino ad oggi a una manciata di album, di cui soltanto
un paio, The Good Life! e A Letter from the Open Sky,
supportati davvero da un accenno di promozione, pubblicati nei primi
anni Novanta per la Shanachie.
Bitter Moon diventa così ancora più degno di nota perché
recupera le ultime incisioni alle quali Meyer stava lavorando, con la
collaborazione di numerosi ospiti in studio: in tutto una ventina di
brani che nell’idea dell’autore avrebbero dovuto trovare spazio addirittura
in una doppia uscita, poi mai realizzatasi in concreto. Afflitto dal
crudele morbo di Parkinson, negli anni successivi Meyer avrebbe infatti
abbandonato ogni impegno artistico e progressivamente si sarebbe ritirato
dalle scene, fino alla scomparsa avvenuta nel maggio del 2012. Ciò che
è stato salvato in Bitter Moon dimostra viceversa che aveva ancora
la stoffa per ritagliarsi un suo piccolo spazio nel vasto mondo dei
folksinger e di quella canzone rock d’autore che aveva visto indicata
la strada dall’avvento di Dylan, ma al tempo stesso aveva saputo darsi
una propria dignità, lontana dal frastuono del music business.
I tredici episodi qui presenti, prodotti insieme al collega Peter Gallway,
e resi in una forma che, seppure ancora grezza in più di un passaggio,
possiedeno tutta la sostanza di una raccolta a un passo dal compimento,
ruotano intorno a un’impressione di folk rock per nulla “pedante”, magari
di quello più legato alla dimensione scarna che spesso si associa al
genere e ai suoi intransigenti protagonisti. Se lo scandire intimo di
certe ballate, come la stessa Jealousy Burns
in apertura, o la successiva title track, restituiscono l’idea di un
tono dimesso, interiore, con un ruolo preminente delle acustiche e parchi
interventi di violino e seconde chitarre, dietro l’angolo spuntano l’incalzante
animosità elettrica di The Driver,
certe coloriture roots e country che addobbano Parasol (con l’accordion
di Rob Quatro) e Guilty Pleasures (il dobro di David Hamburger
a spargere semi texani), per non dire del cambio di registro di una
frizzante Previous Girl, dal battito
quasi new wave alla Elvis Costello o della gemella Hi
Hat, altro esempio di folk rock brillante e dall’animo pop,
che potrebbe ricordare il primo, giovane Steve Forbert.
Meyer mostra la penna sensibile che ci aspetteremmo da un songwriter
cresciuto in quel mondo che per così tanti anni ha frequentato con passione,
così come una voce chiara e convincente, in grado di adattarsi al carattere
nostalgico di una ballad quale Wood Hollow
Road (ospire la bella chitarra di Andrew Hardin, noto per
il suo lavoro al fianco di Tom Russell) e quell’agrodolce racconto country
folk che si sprigiona in Fool’s Last Mile e Love Was Sweet,
facendolo assomigliare persino a un troubadour dalla terra texana e
non a un brillante folksinger di New York.
Anche se certe illusioni, sogni, suoni e insegnamenti non si cancellano
con un colpo di spugna, e allora via con i quasi dieci minuti onirici
(anche se un po’ “inchiodati” nell’arrangiamento) del mantra elettro-acustico
di Strange Generosity o con l’originale chiusura per voce e archi
di Hay is Waving, a ulteriore prova che valeva la pena riaccendere
una seppur fioca luce sulla figura Richard Meyer e che l’inedito
Bitter Moon era sicuramente la migliore occasione per farlo.