Dream Syndicate
Medicine Show
[Water/ Runt
 2010
]

Guardavo il dvd di Stones In Exile (EagleVision/Edel), il documentario della BBC sul tumultuoso "periodo francese" dei Rolling Stones (si erano allontanati dall'Inghilterra per ragioni fiscali) e, di riflesso, sulla realizzazione di Exile On Main Street (1972), per lo più inciso negli scantinati di Villa Nellcote, una sontuosa dimora coloniale di Villefranche-sur-Mer affittata per l'occasione da Keith Richards, senza poter fare a meno di pensare che la cosa migliore di tutta l'operazione era stata la frase pronunciata da Mick Jagger (produttore del filmato) durante la conferenza stampa seguita alla première tenutasi al Festival del Cinema di Cannes della scorsa primavera: "Nei primi anni '70 eravamo giovani, belli e molto stupidi. Ora siamo solo stupidi". Questo perché il dvd, tutto sommato, non aggiunge niente all'epopea già abbondantemente celebrata altrove di uno tra i dischi più belli e febbricitanti dell'intera storia del rock. Spiace però che apparati iconografici e videografici di simile ampiezza siano oggi a disposizione soltanto di chi, tanti anni fa, possedeva le risorse economiche per permetterseli autonomamente: chissà, se le major del disco avessero investito di più su questo aspetto, oggi avremmo qualche inutile dvd degli Stones in meno e qualche decente ristampa, qualche edizione dell'anniversario o qualche cofanetto irrinunciabile in più.

Voglio dire, è un delitto che, nella pletora di ripubblicazioni versata sull'attuale mercato discografico, un capolavoro assoluto dello spessore di Medicine Show ('84), secondo album dei californiani Dream Syndicate dopo la corrosiva psichedelia dell'esordio The Days Of Wine And Roses ('82) e irripetibile punta di diamante del decennio cui appartiene, debba uscire (dopo venticinque anni di attesa!) senza uno straccio di bonus-track, senza le briciole di un documentario, senza uno sputo di filmato live che non si nega più nemmeno al peggiore dei pataccari (ci sono, tuttavia, un bell'articolo del giornalista di Rolling Stone David Fricke e due righe di Steve Wynn). Lo dico non solo perché perdutamente innamorato di un disco che sta tra i dieci che porterei nella fatidica isola deserta: ristampare Medicine Show in questo modo equivale in pratica a condannarlo ad una nuova oscurità. Del resto nessuno ammirerebbe i piatti di Massimo Bottura se fossero presentati su stoviglie di plastica, così come nessuno spenderebbe quattrini per finanziare il restauro dei film di Visconti se la loro unica destinazione d'uso fosse lo schermo di un telefonino. Meno male che qualche santo pronto a mettere in rete uno strepitoso concerto madrileno dei primi '80 (guardate in fondo all'articolo, imperdibile) lo si trova sempre.

Detto questo, resta lo status incredibile dell'album, monumentale oggi come allora. Anzi, forse oggi persino più di allora: se a metà degli anni '80 Medicine Show poteva apparire "soltanto" uno dei grandi dischi regalati da una stagione tutt'altro che avara (nonostante la brutta fama guadagnata per altri motivi) di belle sorprese, ora si può affermare che pochi altri lavori coevi o successivi (probabilmente nessuno) sono riusciti a coniugare estetica post-punk, radici classic-rock e spirito narrativo fulminante in un ibrido altrettanto compiuto. I Dream Syndicate avevano fatto irruzione nella scena del rock indipendente americano pochi anni prima, grazie a un omonimo extended che, nel suo intruglio di ossessioni à la Velvet Underground e cavalcate chitarristiche degne dei Television, metteva in mostra l'epos sgraziato e furioso della scrittura del frontman Steve Wynn, la sei corde tagliente di Karl Precoda, il basso tenebroso di Kendra Smith e il drumming al tempo stesso onirico e sferzante di Dennis Duck.

Si trasformarono presto in una band di soli maschietti a causa delle dimissioni della Smith (che se ne andò in compagnia di Dave Roback dei Rain Parade per formare i Clay Allison, cioé i futori Opal), rimpiazzata dallo squadrato Dave Provost, e nel giro di qualche mese, per sfruttare l'interesse creatosi intorno allo strepitoso The Days Of Wine And Roses, decisero di apporre la propria firma su di un contratto major, scelta per i tempi alquanto controversa. La A&M li affidò alle cure di Sandy Pearlman, già pigmalione di Blue Öyster Cult e Dictators, e i fan duri e puri non mancarono di gridare allo scandalo, com'era del resto successo quando il produttore newyorchese aveva supervisionato i Clash del secondo album, il peraltro eccezionale Give 'Em Enough Rope ('78). Un cambiamento notevole, se non in termini di qualità (non mancano i sostenitori sfegatati che continuano a preferire l'irruenza dei Syndicate del primo album) perlomeno in termini di impegno lavorativo: laddove The Days Of Wine And Roses era stato registrato in tre giorni, sovente assumendo il metodo del "buona la prima", Medicine Show richiese cinque mesi di prove estenuanti, takes accumulate l'una dopo l'altra, impercettibili variazioni degli arrangiamenti, montagne di ulteriori elaborazioni strumentali incessantemente pretese da Pearlman.

Tuttavia, di Pearlman i ragazzi si fidavano (Precoda, all'alba degli anni zero, chiamerà il suo power-trio Last Days Of May proprio in onore della stupenda ballad (Then Came The) Last Days Of May, apparsa nel '72 sull'eponimo debutto dei Blue Öyster Cult), e facevano bene. Fu lui a consigliare l'ingresso nel gruppo del pianoforte di Tom Zvoncheck e fu lui a trasformare in canone immortale quella che dapprincipio era solo sporcizia esecutiva, ancorché graffiante e travolgente. Senza sottovalutare il suono selvatico, drammatico e mai più così arroventato della chitarra di Precoda, che rinunciò alla distorsione per concentrarsi sulla solennità fiammeggiante degli assoli, perno fondamentale dell'album furono soprattutto le canzoni di Wynn, inesorabilmente votate a una dimensione di cupo pessimismo, di tetro fatalismo, di sanguinante spleen metropolitano. La Stimmung di Medicine Show, la sua atmosfera emotiva, fu quella di un'inarrestabile catabasi verso l'abisso; l'intento di Wynn, quello di redigere un violento noir urbano da sbattere in faccia a un decennio contrassegnato da ottimismo di facciata e false speranze.

La discesa agli inferi ("black epic spread" nelle parole dell'autore) del protagonista senza nome di Medicine Show non aveva nulla da invidiare a quella di romanzi come Sarei dovuto restare a casa (1938) di Horace McCoy o Non riposano in pace (1950) di David Goodis, dei quali riuscì ad eguagliare la sensazione di impotenza e sfascio regressivo in una sequenza di liriche da brividi. Canzone dopo canzone, il rimpianto per una storia d'amore sfiorita (Still Holding On To You) finiva per trasformarsi in una malsana fascinazione per il crimine (Burn), in deviata impotenza (Armed With An Empty Gun), in pulsione incestuosa (Daddy's Girl) e persino in desolato paesaggio mentale alla Taxi Driver (la title-track), fino a raggiungere il climax orgiastico di John Coltrane Stereo Blues (in pratica, la folle descrizione di un appuntamento romantico che finisce in stupro) e l'apoteosi nichilista di Merrittville, dove il soggetto narrante, come accadeva col William Faulkner di Assalonne Assalonne (1936), moriva per ben tre volte nella calura opprimente di una provincia che, di lì a poco, avremmo cominciato a chiamare "lynchiana" (nel senso del David regista).

Non da meno, naturalmente, erano le canzoni: ad una prima facciata costellata addirittura di potenziali singoli, quali sarebbero dovuti essere, in un mondo perfetto, le coltellate rockiste di una Still Holding On To You vicina ai mid-tempos scarni ed essenziali Lou Reed o il vertiginoso punk-boogie doorsiano di Armed With An Empty Gun, si giustapponeva un secondo lato darkeggiante, sferragliante e dilatato (tre brani per quasi venticinque minuti di durata), infestato dai fantasmi di Neil Young e degli amati Velvet, intossicato dal blues più visionario e dal country più spettrale. Nel febbrile rock'n'roll dylaniano di Daddy's Girl e nella riarsa allucinazione quasi desertica di Bullet With My Name On It (composta da Precoda) mettevano in luce le radici più tradizionaliste del gruppo, mentre l'epopea di Burn, vorticosa ascensione strumentale alla Crazy Horse, le proiettava in un contesto inedito e personale. Il torbido western psichedelico di The Medicine Show, reso ancor più alienante dall'inquieto controcanto gospel di Gavin Blair (True West) e della coppia Sid Griffin / Stephen McCarthy (Long Ryders), e il tumultuoso guitar-rock dell'interminabile John Coltrane Stereo Blues tracciavano le coordinate di un delirio d'improvvisazione che le avrebbe rese cavalli di battaglia nella dimensione live, giusto un attimo prima che la definitiva Merrittville, ripartendo dal lirismo pianistico della Racing In The Street di Bruce Springsteen, chiudesse l'album in un'esplosione di solennità rattristata, melodramma di sei corde e maestoso fragore della sezione ritmica.

Il disco - solita vecchia storia - non vendette quanto sperato e la A&M arrivò addirittura a pagare i nostri per rescindere l'accordo commerciale. Non prima, però, di aver dato alle stampe l'eccentrico album dal vivo This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live! (1984), allora pochissimo circolato e oggi incollato al suo predecessore per riempire la capienza di un cd: solo cinque brani, una tonnellata di energia (espressa al meglio nelle devastanti riletture di The Medicine Show e John Coltrane Stereo Blues) e, soprattutto, una rinnovata, malinconica maturità esecutiva a rendere imperdibile la Tell Me When It's Over del primo disco, qui preludiata da una intro strumentale del pianoforte di Zvoncheck che, di nuovo, non poteva non ricordare le strepitose elegie snocciolate dal Roy Bittan al servizio di Springsteen. In formazione c'era già un altro bassista (Mark Walton), l'ennesimo, e per l'ultima volta comparve la chitarra di Precoda, al quale subentrò rapidamente Paul B. Cutler (proveniente dai 45 Grave), rimpiazzo certamente più pirotecnico e immediato sebbene, a mio parere, anche inevitabilmente meno personale, istintivo, bruciante. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Stavolta basta, e avanza, ricordare quella scritta dalle canzoni di Medicine Show, storia che, a prescindere dalle biografie dei suoi artefici, resta talmente intensa da sembrare perfino fuori posto in un tempo - il nostro - che di miti e leggende, inevitabilmente frantumati a colpi di ironia e sarcasmo, sembra proprio non sapere che farsene. Di sicuro Medicine Show appartiene alla mitologia di chi vi scrive: ha contribuito a formare il mio gusto e ha reso migliori le mie giornate. E se dei miti, talvolta, giustamente, ritenete opportuno diffidare, non preoccupatevi: ascoltate e basta. Le parole, e le storie, volano. Medicine Show, venticinque anni dopo, è rimasto. Come le leggende.
(Gianfranco Callieri)

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The Dream Syndicate - La Edad de Oro 1984 - Full Show:
www.youtube.com/view_play_list?p=8D1325D2DD93CA37

 


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