Guardavo il dvd
di Stones In Exile (EagleVision/Edel), il documentario
della BBC sul tumultuoso "periodo francese" dei Rolling Stones
(si erano allontanati dall'Inghilterra per ragioni fiscali) e,
di riflesso, sulla realizzazione di Exile On Main Street (1972),
per lo più inciso negli scantinati di Villa Nellcote, una sontuosa
dimora coloniale di Villefranche-sur-Mer affittata per l'occasione
da Keith Richards, senza poter fare a meno di pensare che la cosa
migliore di tutta l'operazione era stata la frase pronunciata
da Mick Jagger (produttore del filmato) durante la conferenza
stampa seguita alla première tenutasi al Festival del Cinema di
Cannes della scorsa primavera: "Nei primi anni '70 eravamo
giovani, belli e molto stupidi. Ora siamo solo stupidi". Questo
perché il dvd, tutto sommato, non aggiunge niente all'epopea già
abbondantemente celebrata altrove di uno tra i dischi più belli
e febbricitanti dell'intera storia del rock. Spiace però
che apparati iconografici e videografici di simile ampiezza siano
oggi a disposizione soltanto di chi, tanti anni fa, possedeva
le risorse economiche per permetterseli autonomamente: chissà,
se le major del disco avessero investito di più su questo aspetto,
oggi avremmo qualche inutile dvd degli Stones in meno e qualche
decente ristampa, qualche edizione dell'anniversario o qualche
cofanetto irrinunciabile in più.
Voglio dire, è un delitto che, nella pletora di ripubblicazioni
versata sull'attuale mercato discografico, un capolavoro assoluto
dello spessore di Medicine Show ('84), secondo album
dei californiani Dream Syndicate dopo la corrosiva psichedelia
dell'esordio The Days Of Wine And Roses ('82) e irripetibile punta
di diamante del decennio cui appartiene, debba uscire (dopo venticinque
anni di attesa!) senza uno straccio di bonus-track, senza le briciole
di un documentario, senza uno sputo di filmato live che non si
nega più nemmeno al peggiore dei pataccari (ci sono, tuttavia,
un bell'articolo del giornalista di Rolling Stone David Fricke
e due righe di Steve Wynn). Lo dico non solo perché perdutamente
innamorato di un disco che sta tra i dieci che porterei nella
fatidica isola deserta: ristampare Medicine Show in questo modo
equivale in pratica a condannarlo ad una nuova oscurità. Del resto
nessuno ammirerebbe i piatti di Massimo Bottura se fossero presentati
su stoviglie di plastica, così come nessuno spenderebbe quattrini
per finanziare il restauro dei film di Visconti se la loro unica
destinazione d'uso fosse lo schermo di un telefonino. Meno male
che qualche santo pronto a mettere in rete uno strepitoso concerto
madrileno dei primi '80 (guardate in fondo all'articolo, imperdibile)
lo si trova sempre.
Detto questo, resta lo status incredibile dell'album, monumentale
oggi come allora. Anzi, forse oggi persino più di allora: se a
metà degli anni '80 Medicine Show poteva apparire "soltanto" uno
dei grandi dischi regalati da una stagione tutt'altro che avara
(nonostante la brutta fama guadagnata per altri motivi) di belle
sorprese, ora si può affermare che pochi altri lavori coevi o
successivi (probabilmente nessuno) sono riusciti a coniugare estetica
post-punk, radici classic-rock e spirito narrativo fulminante
in un ibrido altrettanto compiuto. I Dream Syndicate avevano fatto
irruzione nella scena del rock indipendente americano pochi anni
prima, grazie a un omonimo extended che, nel suo intruglio di
ossessioni à la Velvet Underground e cavalcate chitarristiche
degne dei Television, metteva in mostra l'epos sgraziato e furioso
della scrittura del frontman Steve Wynn, la sei corde tagliente
di Karl Precoda, il basso tenebroso di Kendra Smith e il
drumming al tempo stesso onirico e sferzante di Dennis Duck.
Si trasformarono presto in una band di soli maschietti a causa
delle dimissioni della Smith (che se ne andò in compagnia di Dave
Roback dei Rain Parade per formare i Clay Allison, cioé i futori
Opal), rimpiazzata dallo squadrato Dave Provost, e nel
giro di qualche mese, per sfruttare l'interesse creatosi intorno
allo strepitoso The Days Of Wine And Roses, decisero di
apporre la propria firma su di un contratto major, scelta per
i tempi alquanto controversa. La A&M li affidò alle cure di Sandy
Pearlman, già pigmalione di Blue Öyster Cult e Dictators,
e i fan duri e puri non mancarono di gridare allo scandalo, com'era
del resto successo quando il produttore newyorchese aveva supervisionato
i Clash del secondo album, il peraltro eccezionale Give 'Em Enough
Rope ('78). Un cambiamento notevole, se non in termini di qualità
(non mancano i sostenitori sfegatati che continuano a preferire
l'irruenza dei Syndicate del primo album) perlomeno in termini
di impegno lavorativo: laddove The Days Of Wine And Roses era
stato registrato in tre giorni, sovente assumendo il metodo del
"buona la prima", Medicine Show richiese cinque
mesi di prove estenuanti, takes accumulate l'una dopo l'altra,
impercettibili variazioni degli arrangiamenti, montagne di ulteriori
elaborazioni strumentali incessantemente pretese da Pearlman.
Tuttavia, di Pearlman
i ragazzi si fidavano (Precoda, all'alba degli anni zero, chiamerà
il suo power-trio Last Days Of May proprio in onore della stupenda
ballad (Then Came The) Last Days Of May, apparsa nel '72 sull'eponimo
debutto dei Blue Öyster Cult), e facevano bene. Fu lui a consigliare
l'ingresso nel gruppo del pianoforte di Tom Zvoncheck e
fu lui a trasformare in canone immortale quella che dapprincipio
era solo sporcizia esecutiva, ancorché graffiante e travolgente.
Senza sottovalutare il suono selvatico, drammatico e mai più così
arroventato della chitarra di Precoda, che rinunciò alla distorsione
per concentrarsi sulla solennità fiammeggiante degli assoli, perno
fondamentale dell'album furono soprattutto le canzoni di Wynn,
inesorabilmente votate a una dimensione di cupo pessimismo, di
tetro fatalismo, di sanguinante spleen metropolitano. La Stimmung
di Medicine Show, la sua atmosfera emotiva, fu quella di un'inarrestabile
catabasi verso l'abisso; l'intento di Wynn, quello di redigere
un violento noir urbano da sbattere in faccia a un decennio contrassegnato
da ottimismo di facciata e false speranze.
La discesa agli inferi ("black epic spread" nelle parole dell'autore)
del protagonista senza nome di Medicine Show non aveva nulla da
invidiare a quella di romanzi come Sarei dovuto restare a casa
(1938) di Horace McCoy o Non riposano in pace (1950) di
David Goodis, dei quali riuscì ad eguagliare la sensazione di
impotenza e sfascio regressivo in una sequenza di liriche da brividi.
Canzone dopo canzone, il rimpianto per una storia d'amore sfiorita
(Still Holding On To You)
finiva per trasformarsi in una malsana fascinazione per il crimine
(Burn), in deviata impotenza
(Armed With An Empty Gun),
in pulsione incestuosa (Daddy's Girl)
e persino in desolato paesaggio mentale alla Taxi Driver (la title-track),
fino a raggiungere il climax orgiastico di John
Coltrane Stereo Blues (in pratica, la folle descrizione
di un appuntamento romantico che finisce in stupro) e l'apoteosi
nichilista di Merrittville,
dove il soggetto narrante, come accadeva col William Faulkner
di Assalonne Assalonne (1936), moriva per ben tre volte nella
calura opprimente di una provincia che, di lì a poco, avremmo
cominciato a chiamare "lynchiana" (nel senso del David regista).
Non da meno, naturalmente, erano le canzoni: ad una prima facciata
costellata addirittura di potenziali singoli, quali sarebbero
dovuti essere, in un mondo perfetto, le coltellate rockiste di
una Still Holding On To You vicina ai mid-tempos scarni ed essenziali
Lou Reed o il vertiginoso punk-boogie doorsiano di Armed With
An Empty Gun, si giustapponeva un secondo lato darkeggiante, sferragliante
e dilatato (tre brani per quasi venticinque minuti di durata),
infestato dai fantasmi di Neil Young e degli amati Velvet, intossicato
dal blues più visionario e dal country più spettrale. Nel febbrile
rock'n'roll dylaniano di Daddy's Girl e nella riarsa allucinazione
quasi desertica di Bullet With My Name
On It (composta da Precoda) mettevano in luce le radici
più tradizionaliste del gruppo, mentre l'epopea di Burn, vorticosa
ascensione strumentale alla Crazy Horse, le proiettava in un contesto
inedito e personale. Il torbido western psichedelico di The
Medicine Show, reso ancor più alienante dall'inquieto
controcanto gospel di Gavin Blair (True West) e della coppia
Sid Griffin / Stephen McCarthy (Long Ryders), e
il tumultuoso guitar-rock dell'interminabile John Coltrane Stereo
Blues tracciavano le coordinate di un delirio d'improvvisazione
che le avrebbe rese cavalli di battaglia nella dimensione live,
giusto un attimo prima che la definitiva Merrittville, ripartendo
dal lirismo pianistico della Racing In The Street di Bruce Springsteen,
chiudesse l'album in un'esplosione di solennità rattristata, melodramma
di sei corde e maestoso fragore della sezione ritmica.
Il disco - solita vecchia storia - non vendette quanto sperato
e la A&M arrivò addirittura a pagare i nostri per rescindere l'accordo
commerciale. Non prima, però, di aver dato alle stampe l'eccentrico
album dal vivo This Is Not The New Dream Syndicate Album...
Live! (1984), allora pochissimo circolato e oggi incollato
al suo predecessore per riempire la capienza di un cd: solo cinque
brani, una tonnellata di energia (espressa al meglio nelle devastanti
riletture di The Medicine Show e John Coltrane Stereo Blues) e,
soprattutto, una rinnovata, malinconica maturità esecutiva a rendere
imperdibile la Tell Me When It's Over
del primo disco, qui preludiata da una intro strumentale del pianoforte
di Zvoncheck che, di nuovo, non poteva non ricordare le strepitose
elegie snocciolate dal Roy Bittan al servizio di Springsteen.
In formazione c'era già un altro bassista (Mark Walton),
l'ennesimo, e per l'ultima volta comparve la chitarra di Precoda,
al quale subentrò rapidamente Paul B. Cutler (proveniente dai
45 Grave), rimpiazzo certamente più pirotecnico e immediato sebbene,
a mio parere, anche inevitabilmente meno personale, istintivo,
bruciante. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Stavolta
basta, e avanza, ricordare quella scritta dalle canzoni di Medicine
Show, storia che, a prescindere dalle biografie dei suoi artefici,
resta talmente intensa da sembrare perfino fuori posto in un tempo
- il nostro - che di miti e leggende, inevitabilmente frantumati
a colpi di ironia e sarcasmo, sembra proprio non sapere che farsene.
Di sicuro Medicine Show appartiene alla mitologia di chi vi scrive:
ha contribuito a formare il mio gusto e ha reso migliori le mie
giornate. E se dei miti, talvolta, giustamente, ritenete opportuno
diffidare, non preoccupatevi: ascoltate e basta. Le parole, e
le storie, volano. Medicine Show, venticinque anni dopo, è rimasto.
Come le leggende. (Gianfranco Callieri)