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Una delle cose più difficili
per chi è della mia generazione, e ha sentito gli anni 90 come il momento
musicale più vivo vissuto in diretta, è cercare di essere obiettivi
nell’inquadrare certi eroi di quell’epoca, soprattutto alla luce del
fatto che di tanti artisti amati nella prima parte di quel decennio,
davvero pochi hanno avuto la capacità di mantenere un livello sempre
al di sopra della media anche dopo. E qui l’elenco lo lascio fare a
voi, ognuno ha i suoi nomi, ma su una grossa delusione forse saremmo
tutti d’accordo, ed è quella di Evan Dando. Per questo ringraziamo la
Fire Records per aver deciso di ristampare in occasione del Record-Store
Day store del 23 ottobre l’album Lovey dei Lemonheads,
perché ogni tanto è bene ricordarci che quell’uomo che ormai da anni
tergiversa in dischi di cover e in album di originali discutibili (ma
l’ultimo, il comeback omonimo dei Lemonheads, è uscito ormai 14 anni
fa…), un tempo aveva molto da dire. Lo si chiamava nuovo power-pop
ai tempi, e abbracciava la filosofia di un rock nato sì nei bassifondi,
ma portato alla luce con melodie accattivanti e volendo anche radiofoniche,
e 3-minute songs che badavano ad andare subito al sodo senza perdere
troppo tempo in arrangiamenti complessi. Lovey era un
album breve, con undici brani in cui solo (The) Door sorpassava
abbondantemente i tre minuti e mezzo, ma aveva una intensità davvero
invidiabile ancora oggi, e brani come Half
the Time, Stove, Ballarat, Year of The Cat,
Come Downstairs o Ride with Me sono rimasti comunque dei
piccoli classici della loro storia. Nonostante venisse spinto da una
major, l’album fallì a vendere tanto, ma era il 1990 e gli USA ancora
erano ubriacati dal rock FM e dal fenomeno Guns N’ Roses. Di fatto,
quando nel 1992 uscirà It’s a Shame About Ray, il seguito di
Lovey, anche loro assaporarono buone vendite e il successo di
alcuni fortunati singoli, ma nel 1991 era successo di tutto grazie all’esplosione
della scena di Seattle, e il terreno si era fatto fertile anche per
la loro proposta musicale.
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