Kris Kristofferson
Please Don't Tell Me How The Story Ends: The Publishing Demos 1968-1972
[Light in the Attic
 2010
]

Oh Signore, avrà pensato Kris Kristofferson in quella primavera del 1965, alzandosi, infilandosi la più decorosa tra le sue magliette sporche, stappando la prima birra della mattinata (per combattere il tremendo mal di testa da doposbronza che lo affliggeva), accendendo una sigaretta e quindi scivolando in fretta giù per le scale, ansioso di incontrare il nuovo giorno sui marciapiedi sonnolenti della domenica. Avrà pensato, di fronte al ragazzino che calciava e malediceva una lattina ormai deformata dallo sferrare colpi, di fronte al papà che abbracciava e faceva volteggiare in aria il corpo esile della sua bambina, che cosa ho combinato? Si trovava a Nashville, dove aveva lavorato duro per potersi permettere le cure necessarie al figlio (sofferente a causa di una rara forma di disfagia esofagea), ma la dedizione non era bastata a tenere in piedi il suo matrimonio.

Fresco di divorzio, rifletteva sulle cose lasciate alle spalle. Nell'ordine, una carriera sportiva di prim'ordine ai tempi del college, il ruolo (benissimo remunerato) di capitano nell'aeronautica militare americana, un impiego sicuro da professore di letteratura presso l'accademia di West Point. L'aveva spinto il richiamo della musica, la sirena delle canzoni: quelle stesse canzoni, lente, solenni, profumate di folk e solide come una quercia country, tramite cui - pensava Kristofferson - si poteva dire che gli anni '60 non erano stati soltanto un'illusione, che la guerra in Vietnam stava avvolgendo il paese in un malsano lenzuolo di rancori e sospetti, che se l'uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente (per dirla con Karl Marx).
L'idea inaudita del neo-artista era che tutto ciò si potesse argomentare da Nashville, mecca del country e cittadina (nonché genere) notoriamente reazionaria e allergica alle innovazioni. Su questo Kristofferson non ha mai nutrito dubbi: la musica country, per lui, era la musica soul dell'uomo bianco, ed era ora che a Stetson e pantaloni da cavallerizzi si sostituissero jeans e lunghe chiome disordinate, se non altro per recuperare il polso di quanto succedeva nel paese e così evitare di rinchiudersi in stereotipi logori, tradizioni immodificabili, referenti tanto remoti da risultare improponibili.

Non era un iconoclasta, il nostro Kristofferson. Anzi, a suoi ascoltatori diceva chiaramente che, se non apprezzavano Hank Williams, Johnny Cash, Roger Miller, George Jones, Waylon Jennings, Jerry Lee Lewis e Merle Haggard (ma anche Beatles, Stones, Dylan, Joni Mitchell), potevano pure baciargli il culo. Solo, non aveva problemi a specificare che ascoltare quei mostri sacri gli dava la stessa soddisfazione di una bella canna. Era figlio del suo tempo, del resto, e non gli dispiaceva coglierne lo spirito. Non si nascondeva dietro veli d'ipocrisia o sverniciate di perbenismo: le ragazze che volevano dargli una mano a passare la notte (non la stessa per troppe sere di fila, beninteso), erano le benvenute. Sembrava un cowboy metropolitano fasciato nel jeans, Kris Kristofferson. Così magnetico, con quei Ray-Ban a specchio che ne esaltavano la bellezza del sorriso, e così pensieroso, con quelle nottate trascorse a ruminare canzoni su "rintocchi solitari echeggianti attraverso i canyons come i sogni svaniti del passato". Soffermarsi sul passato, nonostante tutto, era un'abitudine. Tuttavia, non era l'abitudine del cowboy trasformatosi in hippie che si rivolge alle proprie radici (anche familiari: padre e madre, appresa la sua decisione di cimentarsi nella carriera di cantautore, l'avevano disconosciuto) triturandole in un eccesso di Schadenfreude, il piacere derivante dall'altrui patimento. Kristofferson vedeva sgretolarsi i pilastri - famiglia, esercito, istruzione classica - delle sue numerose vite precedenti sotto il peso della contestazione, della rivolta, della controcultura. Aveva simpatia per i movimenti. Ci mancherebbe. Ma aveva già barattato un numero sufficiente dei suoi domani, allo scopo di guadagnare ricordi di un singolo, indefinito "ieri", per sapere che anche la più irruenta e improcrastinabile delle rivoluzioni, ammesso si verifichi, porta sempre con sé una significativa appendice di dolore e rimpianti.

E sul rimpianto, su un gruzzolo di canzoni (da Me And Bobby McGee a Duvalier's Dream, da Enough For You a Darby's Castle) che scavano nei rimorsi e nella fantasmagoria rattristata di vite che potevano essere e non sono state, Kristofferson ha costruito una poesia, una poetica, un impegno personale, una professione. Affiancandovi, sovente, un robusto impegno politico che ancora oggi lo vede sulla strada, intento a macinare concerti, apparizioni in pellicole cinematografiche non sempre irreprensibili (anzi), petizioni firmate, cause appoggiate. Non era certo un volto noto, il suo, alla fine degli anni '60, ma una cosa era certa. Chiunque ascoltasse le sue canzoni finiva per innamorarsene. Era successo a Gordon Lightfoot, a Ray Price e allo stesso Johnny Cash; sarebbe successo, nel corso degli anni, a Mark Eitzel, Shawn Mullins, Joan Osborne, Crooked Fingers tra gli altri. Nessuno, però, riusciva a rileggerle con l'intensità dei prototipi (è accaduto due sole volte: con la Janis Joplin di Me And Bobby McGee e col Johnny Cash di Why Me Lord, in entrambi i casi grazie a un opportuno tradimento degli originali), che Kristofferson andava pazientemente assemblando, nei ritagli di tempo e nelle mezz'ore libere tra una session di registrazione e l'altra, durante quattro anni trascorsi lavorando come custode degli studios nashvilliani della Columbia.

Please Don't Tell Me How The Story Ends: The Publishing Demos 1968-1972
raccoglie proprio i demos allora realizzati da Kristofferson in condizioni di fortuna, nella segreta speranza che servissero da "portfolio" per attirare l'attenzione di altri artisti sul proprio lavoro o per racimolare uno straccio di contratto editoriale presso qualche major del disco. Le sedici tracce qui raccolte, tutte ritrovate per caso, ripulite in modo più che dignitoso e mai ascoltate prima in questa versione, dicono di un autore già enorme, capace di catturare l'attenzione con una chitarra, una voce impastata di polvere e liquori e testi in bilico tra Francis Scott Fitzgerald e gli amati maestri del country cosiddetto "narrativo", cioè Mickey Newbury e Tom T. Hall. E nonostante la relativa povertà strumentale, spicca in modo inequivocabile, grazie anche ai contributi di due vecchie volpi del Sud quali Donnie Fritts e Billy Swan, l'attiditudine del nostro a fondere tradizione bianca e soul, a celebrare in netto anticipo sui tempi il matrimonio tra folk e attitudine gospel, tra country e malinconiche ballate rootsy. In parte si trattava di un procedimento intravisto assistendo, per pura coincidenza lavorativa, alle caotiche incisioni del dylaniano Blonde On Blonde, che prese forma negli studi da Kristofferson sorvegliati. In parte di si trattava dello sfogo naturale di una scrittura colta e gonfia di romanticismo, ricca di rimandi classici e suggestioni letterarie.

Please Don't Tell Me How The Story Ends: The Publishing Demos 1968-1972, comunque, pur presentando brani che in molti casi non hanno nulla da invidiare alle pubblicazioni regolari, non è raccomandabile a chi ricerca la compostezza e la perfezione delle scremature effettuate in sala d'incisione: non una della diverse incertezze esecutive è stata espunta (per fortuna!), sicché non è raro imbattersi in false partenze (la title-track ne conta due), nell'omissione di intere strofe o in imprecazioni di disappunto (compresi i due inequivocabili "fuck!" che introducono Getting By, High, And Strange). Non è un pur disadorno greatest-hits, insomma, funzione altresì egregiamente ricoperta dal sublime The Austin Sessions (1999), collezione quasi unplugged di riletture di vecchi successi e miglior album ufficiale del nostro a parimerito con l'indimenticabile esordio omonimo del '70. Eppure, tra spartane takes per voce e chitarra (Little Girl Lost, Billy Dee, When I Loved Her) e primordiali redazioni di quelli che diverranno gli arrangiamenti effettivi di pezzi celeberrimi (ascoltate i gritos della citata Getting By, High, And Strange o, a dispetto del titolo, la spumeggiante sverniciatura honky-tonk di Slow Down), i brani del disco lasciano comunque affiorare una scrittura di efficacia impressionante, in grado di risuonare struggente nella più raccolta delle orazioni funebri (è il caso del toccante pianoforte di Fritts, unico accompagnatore della Epitaph (Black And Blue) composta da Kristofferson in occasione della scomparsa di Janis Joplin), elegiaco nella più countreggiante delle serenate soul (su Border Lord, a ricamare affrante distanze interiori, c'è il piano di Mike Utley), amareggiato nel più travolgente dei country-rock da bar-band (Smile At Me Again, scritta a quattro mani col povero Stephen Bruton, andrebbe incorniciata).

Nel corposo booklet (60 pagine!) di Please Don't Tell Me How The Story Ends: The Publishing Demos 1968-1972 ci sono le testimonianze di Dennis Hopper, Kinky Friedman e Merle Haggard, un bellissimo articolo di Michael Simmons e i commenti track by track dello stesso Kristofferson. Ma ci fosse stato pure un semplice A4 piegato male e recanti quattro scarabocchi, non avrei avuto bisogno di nient'altro per definirlo un acquisto obbligato.
(Gianfranco Callieri)

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