Per
la critica italiana, soprattutto quella della seconda metà dei ’70 e
delle prime stagioni del decennio successivo, meno attenta ai suoni
provenienti dagli Stati Uniti e meglio disposta, invece, alla ricezione
delle novità in arrivo dall’Inghilterra, c’è stato un periodo in cui
nominare Kris Kristofferson equivaleva, dal punto di vista musicale,
a invocare un emerito sconosciuto. O a richiamare, al limite, un attore
di scarsa consistenza, macchiato per di più dal difetto di doversi far
perdonare il successo internazionale di un polpettone come il secondo remake di
È Nata Una Stella (A Star Is Born, 1976), interpretato da Barbra
Streisand e diretto da Frank Pierson (e pazienza se questi aveva rielaborato
la sceneggiatura del prototipo, targato 1937, facendosi aiutare dagli
oggi venerati Joan Didion e John Gregory Dunne), nonché i quasi 10 milioni
di copie vendute dalla relativa colonna sonora, con la sua copertina
a base di erotismo allusivo e patinato per anni presenza fissa nei “forati”
di mezza penisola e nei cestoni di qualsiasi Autogrill.
Un po’ poco, tutto sommato, per liquidare e trascurare chi, sempre nel
1976, era stato evocato anche nell’inferno metropolitano alla Fëdor
Dostoevskij di Taxi Driver, scritto dal calvinista Paul Schrader
e diretto dal cattolico Martin Scorsese: era infatti al protagonista
di una delle canzoni di Kristofferson - la «contraddizione ambulante»
di The Pilgrim, Chapter 33 - che la Betsy di Cybill Sheperd paragonava
il tassista impersonato da Robert De Niro, immerso in un nichilismo
senza sbocco, e The Silver Tongued Devil And I (1971) era il
disco regalatole da costui, non tanto per fare colpo quanto per totale
disinteresse verso il denaro e i possibili modi di spenderlo. Basterebbe
questa citazione, tra le tante richiamabili, per collocare il repertorio
dell’ex-aviatore Kristoffer Kristofferson, per tutti “Kris”, tra le
esperienze più intense e significative della canzone d’autore americana
del ‘900, puro esistenzialismo beatnik applicato prima all’ambito del
country (svecchiato con piena adesione ai tratti e alle tematiche del
movimento outlaw), poi su sonorità terzomondiste e infine, dai primi
2000 al ritiro dalla scene (scoccato due anni or sono), in un secco
confronto con le cose ultime - il tempo, la morte, il dolore e la stanchezza
del - — immortalato con altrettanta efficacia solo (per restare ai viventi)
da Bob Dylan e Willie Nelson.
Se
ognuna delle diverse fasi della sua carriera ha goduto, ancorché in
ritardo o in differita, di un’adeguata testimonianza “dal vivo”, forse
a mancare l’appello era proprio il periodo dei primi ’80, quando l’artista,
accompagnato da una formazione tanto essenziale quanto impregnata di
tradizioni nere, era solito rivestire di grinta soul - quello downhome,
dalla forza ritmica ai confini col funk, proveniente dalle regioni del
Sud - il suo intreccio di country e rock dalle caratteristiche già progressiste.
Si inserisce in questa casella il nuovo Live At Gilley’s
- Pasadena, Tx: September 15th, 1981, registrato nell’omonimo
locale di Mickey Gilley (cugino, da poco scomparso, di Jerry Lee Lewis)
diventato famoso per la presenza di un toro meccanico sul quale si esercitava
anche il John Travolta di Urban Cowboy (1980): lo fa con un tripudio
di country, rock, soul e viscere rootsy variamente declinate, catturando
quindi uno dei padri della rinascita country in formato «fuorilegge»
dei ’70 al massimo delle proprie potenzialità espressive.
Una parte (egregia) del lavoro viene svolto dal gruppo alle spalle del
titolare, composto dalle tastiere viscose di Donnie Fritts, dalla sei
corde ritmica di Billy Swan (talvolta occupato a raddoppiare l’organo),
da quella solista di Stephen Bruton e dall’indifferenza virtuosistica
della sezione ritmica di Tommy McClure (basso) e Sammy Creason (batteria),
tutti professionisti in grado di passare dalle cadenze rilassate di
una serenata country al più movimentato dei numeri r&b con la stessa,
ruvida disinvoltura; un’altra parte (non meno importante e decisiva)
riguarda altresì la risposta elettrizzata e talvolta persino «spiritata»
(come rimarca lo stesso Kristofferson) del pubblico pagante, pronto
a ruggire persino alle prime battute, a tempo di valzer, di una Here
Comes That Rainbow Again all’epoca ancora inedita. Il resto, naturalmente,
è tutto sulle spalle delle canzoni di Kristofferson, sull’honky-tonk
rockista di una Me & Bobby McGee
sfoderata in partenza e tarantolata nell’incedere, sul lirismo di vetro
e cemento di una Casey’s Last Ride
(mai così bella) degna dei cantautori elettrici alla Elliott Murphy,
sul selvatico rock delle radici di You Show Me Yours (I’ll Show You
Mine) e Stranger (qui unite in un medley a passo di carica),
sulle malinconiche preghiere di For The Good
Times, sulla “mattonella” soul tra città e campagna di Nobody
Loves Anybody Anymore, sul country elegiaco di If It’s All The
Same To You e su quello rock & roll di The Pilgrim.
A voler cercare il pelo nell’uovo, spiace per una Sunday Mornin’
Comin’ Down piuttosto approssimativa e per una Same Old Song
molto coinvolgente in potenza ma anch’essa eseguita, purtroppo,
in modo assai frettoloso (sommando la durata delle due si arriva a malapena
a tre minuti totali, e del resto si rivolgono entrambe a un pubblico
desideroso soltanto di riconoscerle); rimostranze che svaniscono, tuttavia,
davanti al lancinante finale gospel di Why
Me, tra le più sentite espressioni di un interrogarsi umanista
oggi come ieri impossibile da banalizzare, semplificare o sottovalutare.
Anche se di Kris Kristofferson non siete estimatori particolarmente
accaniti, potete prendere Live At Gilley’s - Pasadena, Tx: September
15th, 1981 come un viaggio nel tempo diretto verso un momento della
musica americana i cui le regole della contaminazione tra i generi sembravano
ancora tutte da scrivere e il texano poteva assomigliare a un Leonard
Cohen domiciliato al confine col Messico. Nostalgia? Inarrestabile.
Malinconie? A secchiate. Ma finché nostalgie e malinconie saranno di
questa caratura, nessuno, credo, vorrà porsi problemi inutili.