Ascoltando
The Words in Between, album d'esordio del 1971 del misconosciuto
Dave Evans, riemergono i profumi di un'Inghilterra rapita dalle trame acustiche
delle chitarre e dalla tradizione folk locale, la stessa che incontrava il linguaggio
del blues americano. La generazione è quella irripetibile che prendeva le mosse
dal pioniere Davy Graham e passava per le corde di Bert Jansch e John Renbourn,
magica coppia poi coalizzatasi nel progetto Pentangle, ma anche quella di Nick
Drake e del suo canto malinconico, che spesso risuona nella voce gentile e riservata
di Evans. Quest'ultimo rappresenta l'amico dimenticato, il musicista che non ha
avuto la fortuna, e per qualcuno anche il talento, per riuscire ad emergere in
un momento così propizio, eppure troppo affollato di folksinger.
Che Evans
non avesse i numeri per imporsi al grande pubblico del brit folk di quegli anni
è questione da discutere all'infinito: una chitarra impeccabile la sua, un picking
sullo strumento (costruito con le sue mani) incredibile per brillantezza, un maestro
riconosciuto poi con lo stato di culto negli anni successivi (ne parla di recente
l'allievo Steve Gunn). Ciò che gli viene spesso imputato era di non avere altrettanta
efficacia nel canto e nella scrittura: che giudizio ingeneroso e fuori bersaglio,
aggiungerei, ascoltando le dieci perle di The Words in Between. Nel recensire
la vecchia edizione del disco - oggi riproposto nella sua scaletta originale dalla
ristampa della Earth recordings - persino la famosa enciclopedia online Allmusic
gli riserva parole sbrigative, soffermandosi soltanto sulla tecnica chitarristica.
Uno sbaglio imperdonabile di fronte a queste vignette di vita quotidiana, cantate,
e qui risiede proprio il loro fascino, con la timidezza di un osservatore appartato,
scene e piccole visioni che attraversano lo sguardo di Dave Evans dalla sua camera.
La stessa probabilmente dove The Words in Between fu registrato, in totale indipendenza,
con l'aiuto dei discografici Ian A. Anderson e John Turner, fondatori dell'etichetta
Village Thing (ispirata palesemente al Village di New York) nella periferia di
Manchester di fine anni sessanta.
Sono loro a scoprire le doti di Dave
Evans, mettendolo di fronte ad un registratore Revox con la sola chitarra e giusto
qualche grazioso "orpello" di armonica e della seconda voce femminile di Adrienne
Webber. Il disco è presto fatto, non serve altro ad alimentare la magia della
title track e di una Rosie che danza leggiadra
sui passaggi intricati di Evans alla sei corde acustica. Stile lirico ed eleborato
al tempo stesso il suo, certo imparentato con i contemporanei Jansch e Renbourn,
per altri paragonabile in padronanza tecnica ai celebrati John Fahey e Robbie
Basho, ma in fondo del tutto peculiare, un'isola a sé che lambisce le fondamenta
del blues e le strutture del folk autoctono costruendo gli armonici di Magic
Man, le dolcezze circolari di Now It's Time, il fingerpicking
intrecciato e tenue di Doorway e Circular
Line fino a scoprire un sapore rurale, antico nella conclusiva Sailor.
Non ci sono trucchi, è il caso di dirlo per The Words in Between, se non
le intuizioni e le piccole epifanie di Evans alla chitarra, uno strumento che
diventerà il suo unico modo di cominicare, lui che si ritirerà negli anni ottanta
in Belgio, trasformandosi in apprezzato liutaio. Per un breve momento però - e
si tramanda addirittura con l'ammirazione di Lou Reed, rapito dalla sua esibizione
all'Old Grey Whistle Test - Dave Evans è stato un frutto maturo di una stagione
eccezionale di cantori dall'animo acustico.