È singolare che tra i meme/gif
più utilizzati oggi dagli utenti dei social per commentare un eventuale
stato di totale disagio, ci sia l’immagine di Bob Dylan perso
dentro il coro della canzone benefit We Are The World del 1985,
eppure proprio quel Dylan, spaesato e desideroso di essere in qualunque
posto che non fosse un video di MTV, è quello che più abbiamo in testa
quando pensiamo ai suoi anni 80. Un uomo fuori dal tempo, incapace di
vestire i panni di un decennio che pareva così lontano da lui. Eppure,
lui ci aveva provato, magari con l’improbabile giacca che il regista
Paul Schrader gli fece vestire nel video di Tight Connection to My
Heart (e che ritroviamo simile anche nella copertina di Empire
Burlesque), o l’improbabile mise da hard-rocker con giacca in pelle
e orecchino pendulo mostrato nell’infelice film Hearts Of Fire del
1988.
I suoi anni Ottanta erano però nati in altro modo, cogliendolo in pieno
fervore artistico/spirituale con album come Saved e Shot Of
Love, che ai tempi furono anche selvaggiamente massacrati dalla
critica, e si chiuderanno poi con la storia completamente differente
di Oh Mercy, disco che però già lo proiettava nei Novanta. In
mezzo ci fu un periodo di blocco creativo che lo stesso Dylan ha descritto
nel libro "Chronicles Vol 1", quando pare non abbia più composto
quasi nulla almeno tra il 1984 e il 1988. A salvare il tutto ci fu un
momento davvero creativamente felice che portò all’album Infidels
del 1983, ma, di fatto, diede materiale e spunti sufficienti a confezionare
anche il grosso dei tre capitoli successivi (Empire Burlesque,
Knocked Out Loaded e Down in The Groove). E già il terzo
volume delle Bootleg Series del 1991 aveva evidenziato come anche
l’opera di recupero di inediti e scarti successiva avesse lasciato nel
cassetto veri e propri capolavori, Blind Willie McTell su tutte,
probabilmente ritenuta troppo lontana dalla filosofia degli 80 per essere
pubblicata, o perlomeno recuperata su dischi poveri di contenuti che
sicuramente ne avrebbero giovato.
Per questo motivo Springtime
in New York era uno dei volumi più attesi di questo lungo riordino
dei suoi archivi, e che sia stato anche lasciato in coda è significativo
del poco amore che Dylan ha comunque conservato per il periodo. In ogni
caso, se poi il meglio era già stato pubblicato nel 1991 (ad esempio
brani importanti come Foot Of Pride, Need A Woman o Angelina
vengono qui riproposti in altra versione), questa volta non c’è da rimanere
delusi, sia che decidiate di prendere l’essenziale doppio CD o l’edizione
da 5. Certo, non a tutti interessa risentire Infidels quasi al
completo in versione pressoché simile (Man Of Peace è l’unico
brano ignorato anche a questo giro), ma, per esempio, le registrazioni
alternative dei brani di Empire Burlesque sono spesso spogliate
dai pesanti interventi in sede di post-produzione di Arthur Baker, conosciuto
per il lavoro coi New Order e Afrika Bambaataa, che anni dopo dichiarerà
il proprio pentimento per un trattamento che lui stesso giudicò peggiorativo
(ma in linea con gli ordini impartitogli dalla Columbia).
E poi c’è sempre da “maledire” Dylan per alcune scelte, come quella
di tagliare Death Is Not The End
nella versione pubblicata tardivamente su Down In The Groove
(perché poi non si sa, visto che il disco durava pochissimo e spazio
ce n’era in abbondanza), quando qui scopriamo che il brano aveva una
coda gospel che lo valorizzava parecchio. Oppure perché non dare un
senso a un live-record poco utile come Real Live del 1984 con
un inedito come Enough is Enough
che viene da quel tour, oppure ancora perché lasciare nel cassetto brani
che meritavano miglior luce come Too late,
Let’s Keep It Between Us (questa la pubblicò Bonnie Raitt)
o Don't Ever Take Yourself Away. Per il resto, stringi stringi,
il materiale veramente nuovo non è tantissimo, se non si contano anche
le tante cover mai pubblicate come Straight A's in Love di Johnny
Cash, Angel Flying Too Close to the Ground di Willie Nelson o
Baby What You Want Me to Do di Jimmy Reed registrata per Empire
Burlesque, e le ottime cover contenute nelle prove per il tour di Shot
Of Love (e qui di chicche ce ne sono parecchie) o classici come
Green, Green Grass of Home, Let It Be Me, e molte altre.
La confezione e la scelta dei pezzi sono come al solito curati molto
bene, e probabilmente questo sedicesimo capitolo completa il lavoro
di recupero dei suoi anni più storici, perlomeno per quello che si sa
delle sue session perdute prima dei 2000, lasciando aperta la porta
a eventuali produzioni più recenti non date in pasto alle stampe, o
al tantissimo materiale live che immaginiamo sia stipato negli archivi
della Columbia. Ma con Bob Dylan, si sa, non si può mai dire con certezza
cosa succederà. A lui piacciono le sorprese.