Nel 1975, Glen Travis Campbell da Delight, Arkansas,
oggi più o meno ottantenne, era nel mondo della musica da quasi vent'anni.
Vi aveva debuttato, all'inizio, in qualità di membro dei Champs (proprio
quelli di Tequila) e subito dopo come turnista della chitarra (aveva
fatto parte di un gruppo di mestieranti californiani denominati "The
wrecking crew" dal produttore Hal Blaine e presenti, spesso in forma
anonima, nei dischi d'epoca di Ricky Nelson, Elvis Presley, Frank Sinatra,
Bobby Darin, Dean Martin, Nat King Cole e molti altri), vocazione quest'ultima
sulla quale insisteranno anche i titoli di diversi album della sua prima
fase da solista. Era però diventato una star solo nella seconda metà
dei '60, dopo aver prestato i propri servigi ai Beach Boys di Pet Sounds,
grazie a una collaborazione col compositore Jimmy Webb foriera di successi
quali Galveston, By The Time I Get To Phoenix, l'immortale Wichita Lineman
e Where's The Playground Susie, canzoni con cui il nostro si era spostato
dal secco country-bluegrass degli esordi da titolare (provate a recuperare
lavori capitali e oggi purtroppo dimenticati, anche dai fan dell'artista,
come Big Bluegrass Special [1962], accreditato ai fantomatici
"Green River Boys", o Too Late To Worry, Too Blue To Cry [1963])
per mettere in scena un'ibridazione delle forme dove lo stile cosidetto
countrypolitan architettato da Billy Sherrill per le opere di George
Jones e Tammy Wynette incontrava una dimensione pop dagli arrangiamenti
sofisticati e talvolta sconfinanti nel jazz o nel soul.
Essendosi Campbell poco o punto cimentato nella scrittura dei brani,
la qualità dei suoi dischi è stata sovente discutibile, nonché troppo
condizionata dal materiale di volta in volta interpretato (ma tenete
conto di come negli ultimi tempi, giusto per dare un'idea dell'affetto
e della popolarità intorno al personaggio, per il nostro abbia appositamente
composto anche un Paul Westerberg) e dalla personalità di chi sedeva
dietro il banco del mixer; a non essere mai venuta meno, invece, è sempre
stata la versatilità di una voce benedetta da uno strepitoso controllo
su qualsiasi tipo di registro, a proprio agio nella più introversa delle
declamazioni old-timey come nell'intrattenimento puro e semplice di
molti pezzi riconducibili più al crooning di Charles Aznavour che alla
disperazione di Hank Williams. Tuttavia, verso la metà degli anni '70,
distratto dalle lusinghe del cinematografo (era apparso nel western
Il Grinta, a fianco di John Wayne, e aveva recitato, da protagonista,
nella commedia Norwood, sempre tratta da un racconto di Charles Portis)
e dalla conduzione di un programma televisivo, Campbell aveva già smesso
di incidere musica interessante da un pezzo.
Rhinestone Cowboy, quindi, segnò non soltanto una momentanea
inversione di tendenza, ma l'inaugurazione di una vera e propria stringa
di ottime produzioni - le ultime, nella carriera dell'artista - cui
sarebbero seguiti, anno dopo anno, il cupo Bloodline (1976), con Webb
di nuovo in partita, il fortunatissimo Southern Nights (1977) e il folkeggiante
Basic (1978) per intero dedicato al repertorio di Micheal (scritto proprio
così) Smotherman, oscuro cantautore responsabile di due soli album in
25 anni.
Campbell cadde poi in uno stadio di perenne assopimento
artistico contrassegnato da troppe concessioni a un country-pop di maniera
e interrotto solo qualche anno fa, a seguito della diagnosi irreversibile
di un Alzheimer nocivo per la salute e la memoria dell'artista, ma in
qualche modo utile nello spronarlo a confrontarsi con la produzione
di autori meno scontati: Rhinestone Cowboy, tuttavia, resta uno dei
grandi album degli anni '70 e il capolavoro indiscusso dell'artista,
qui come non mai disinvolto nel cucire assieme un sincero amore per
la tradizione, un'inconfondibile classe da interprete e un trasporto
nostalgico, e tremendamente efficace, verso gli standard della canzone
americana d'anteguerra, le cui suggestioni seppe evocare e rileggere
con un gusto malinconico non lontano dal Willie Nelson di Stardust o
dal Neil Diamond "rootsy" di Brother Love's Travelling Salvation Show.
Una porzione significativa della riuscita di Rhinestone Cowboy
è da attribuirsi alla title-track, un racconto di aspirazioni frustrate
e disillusione circa il mondo dello spettacolo, scritto da Larry Weiss,
dove l'espressione "cowboy da bigiotteria" (rhinestone cowboy) allude
alla voga hollywoodiana dei western cantati (molto popolari negli anni
'30 di Gene Autry e Hop-Along Cassidy) e diventa una riflessione (auto)ironica
sullo status dello stesso Campbell, che credette nella traccia dopo
i rifiuti di Elvis e Neil Diamond e ne attraversò le sontuose linee
tra country e pop con una convinzione tale da rendere il singolo il
suo brano più venduto e rappresentativo di sempre.
Altro merito e altra sostanza vanno riconosciuti ai produttori Dennis
Lambert e Brian Potter, già responsabili dei successi di Four Tops,
Righteous Brothers e Tavares (!), che convinsero Campbell a riprendere
in mano la chitarra dopo tanto tempo e, intuendone l'insoddisfazione
personale (l'artista aveva appena divorziato e iniziato a bere e drogarsi),
gli suggerirono di incidere il tutto in poche sedute, concentrandosi
come un cantante soul (difatti c'è una cover di My Girl dei Temptations)
e dimenticando per un attimo dischi natalizi, paillettes televisive
e amenità varie. E splendido fu Campbell medesimo, finalmente di nuovo
credibile e convincente nel dare voce, armonie e unità formale a una
serie di brani tutti legati tra di loro dal tema della sconsolata frustrazione
di un ragazzo di campagna di fronte agli illusori adescamenti della
città e dello showbiz.
Dall'effervescenza country-rock della prima Country
Boy (You Got Your Feet In LA) all'elegiaco congedo della
conclusiva We're Over, l'album è
una parata di addii, disinganni, amarezze, fallimenti e cuori spezzati:
quello dell'amante pentito nella sublime traduzione pianistica della
Marie di Randy Newman e quello del
novizio ancora innamorato e ambizioso della scintillante Comeback,
quello del venditore ambulante di Pencils For Sale e quello dello
sconosciuto passante di Count On Me. Campbell canta come se si
trovasse su di un palcoscenico di Broadway mentre gli arrangiamenti
dipingono con tutta la ruvida grazia del caso un soft-rock profumato
di West-Coast (del resto, ci sono pur sempre Fred Tackett dei Little
Feat alla sei corde acustica e l'esperto Dean Parks, allora nei Bread
di David Gates e Jimmy Griffin, su quella elettrica) e lo frullano con
sfumature pop-jazz alla Johnny Mercer.
L'edizione commemorativa approntata per i quarant'anni dell'album non
aggiunge forse granché a quanto già si sapeva: il rockabilly formato
Nick Lowe della divertente Record Collector's
Dream (una b-side d'epoca), la versione in studio della "presleyana"
Coming Home (To Meet My Brother) altrimenti disponibile solo
sul quasi contemporaneo Live In Japan (1975), tra l'altro ristampato
giusto tre anni fa dalla Real Gone dopo decenni di assenza dagli scaffali
dei negozi di dischi (se ancora ne esistono), e l'inedita Quits
(bellissima), più due remix apparsi su altrettante antologie. A importare,
però, è soprattutto l'occasione di (ri)ascoltare Rhinestone Cowboy ripulito
e rimasterizzato, magari per accorgersi quanto, allontanando per un
attimo l'eco delle prove meno digeribili del suo autore, sia ancora
carico del fascino e del salutare veleno di una critica all'industria
di cui, senza alcuna contraddizione, continua a fare parte, come l'immagine,
apparsa per caso e tuttavia ben impressa nella memoria, di un beffardo
fantasma d'altri tempi. O un cowboy da bigiotteria.