Tra le non poche parole composte della lingua
giapponese pressoché intraducibili in italiano, mono no aware
- una delle più affascinanti - indica quell’emozione ineffabile suscitata
da immagini, suoni, scritti o elementi della natura in grado di raccontarci,
con un pathos tutto particolare, la caducità e l’effimero, la transitorietà
delle cose e delle creazioni umane. Tutto cambia, tutto appassisce,
muore e rinasce, lasciandoci addosso una sensazione in cui s’intrecciano
la nostalgia per ciò che è stato, la partecipazione emotiva al continuo
mutamento della realtà e un compiacimento malinconico, dolceamaro per
l’incessante passare del tempo sull’interazione tra gli esseri umani
e la natura. Mono no aware, appunto.
Non credo che Bob Dylan abbia dedicato i giorni della sua trasferta
nipponica dell’inverno del 1978, quando si recò a Tokyo per inaugurare,
con tre diversi concerti, il suo tour mondiale di quell’anno (114 date,
le prime undici nella terra del Sol Levante, le ultime negli Stati Uniti
dopo aver peregrinato tra Europa e Nuova Zelanda, Canada e Australia),
ai concetti dei monogatari, le narrazioni in prosa in qualche modo paragonabili
alla nostra epica. Ma se non l’ha fatto lui, possiamo sempre farlo noi
di fronte a questo The Complete Budokan 1978, edizione
"espansa", fino a rasentare l’ipertrofia, del controverso
At Budokan (1979), fatto uscire in tutto il mondo un anno dopo
la pubblicazione originaria (inizialmente prevista per il solo Giappone)
e in genere osservato con antipatia da molti estimatori dell’artista
(se non da tutti), forse perché questi (di sicuro la CBS, che stampava
e distribuiva) volle intenderlo come un greatest-hits dal vivo, però
con arrangiamenti molto anticonformisti e, per tanti oppositori della
prima ora (tra essi Dave Marsh, l’apologeta di Bruce Springsteen, che
sull’annuario di Rolling Stone sentenziò, "Questo è il suo peggior
disco con un margine così ampio da essere difficile da spiegare"),
troppo addolciti, insinuanti, semplificati e patinati dagli ottoni per
rientrare nella categoria delle reinvenzioni anziché in quella dei compromessi.
Oggi, tuttavia, questa ennesima e per l’ennesima
volta spiazzante fotografia dell’artista - una delle tante tra le infinite
scattate e manipolate, nel tempo, da chi della decostruzione di sé ha
fatto scuola di vita - con chitarra a tracolla, assorto davanti a una
pianta di sakura, i fiori di ciliegio che nel buddismo zen simboleggiano
la splendida precarietà del creato, e ritratto non nelle 22 canzoni
dell’album d’origine, ma nelle 58 delle due date integrali (e cioè il
28 febbraio e il primo di marzo) da cui quel doppio LP fu desunto, induce
a qualche riflessione supplementare. La prima: Dylan veniva, allora,
da un altro doppio dal vivo assai celebrato, quel seminale Before
The Flood (1974) in cui l’accompagnamento di The Band al completo
aveva dato luogo, secondo la maggioranza degli ascoltatori, ad alcune
tra le registrazioni più espressive e trascinanti di sempre nell’ambito
della musica live. La seconda: il precedente tour, visto in azione solo
tra Canada e Stati Uniti, era stato quello zingaresco, elettrizzante
e stratosferico della Rolling Thunder Revue (1975/76), talmente
unico e ricco di sorprese (nonché di grinta rockista) da essere considerato,
nell’opinione di molti dylaniati e non solo, il punto più alto mai raggiunto
dall’artista durante la sua carriera on stage, oggetto di una venerazione
così ampia da far digerire anche una documentazione (in sé ottima, sebbene
parzialissima rispetto al materiale disponibile) a dir poco minimale
come quella offerta dal singolo Hard Rain (1976).
Rispetto a queste due considerazioni si può già notare quanta intelligenza
abbia mostrato Dylan, a posteriori, nello sconfessare un potenziale
rilancio basato sull’accrescimento dell’epos o della vena rock, e infatti
The Complete Budokan 1978, come e più del suo prototipo,
immortala un musicista rilassato e downhome, intento a smontare il proprio
repertorio in una miriade di mattoncini di volta in volta dedicati al
soul di Memphis, al R&B degli stati del Sud, alle melodie carezzevoli
dei jukebox degli anni ’60, alla purezza delle registrazioni del Sun,
al jazz, al folk-rock e al fiabesco ritmo in levare della Giamaica,
il tutto «cucinato» da un gruppo che strizza gli occhi al funkeggiare
di Booker T. Jones e a un ferino, sensualissimo blues al femminile da
ultimo giro di bicchieri nelle periferie delle grandi città. Miracolosa,
in tal senso, è la You’re A Big Girl Now
ebbra di rum, caraibica e swingante del 28 febbraio, una specie di ibrido
spiazzante e magnifico tra il soul latino dei dominicani di New York,
il crooning di Frank Sinatra, il jazz dei locali italoamericani e perché
no, un tocco di piano-bar, con tutti questi ingredienti amalgamati da
un sax intento a stillare note come fossero gocce di liquore.
C’è poco da eccepire, del resto, se il sassofono è quello di Steve Douglas,
ex-membro della mai troppo lodata Wrecking Crew di Los Angeles (futuro
produttore, inoltre, di Le Chat Bleu [1980] dei Mink De Ville),
e se a circondarlo, oltre a tre musicisti della citata Rolling Thunder
(David Mansfield e Steven Soles della Alpha Band, più Rob Stoner al
basso), ci sono il Billy Cross di Meat Loaf alla sei corde, il jazzista
Alan Pasqua alle tastiere, la splendida Bobbye Jean Hall alle percussioni,
il britannico Ian Russell ai tamburi e tre coriste perfettamente in
parte. Spesso il suono di The Complete Budokan 1978 sembra anticipare
alcuni tratti di quello annerito e groovey di Slow Train Coming (1979),
è vero, ma gli sono ancor più affini l’intimismo rock e la vena da cantautore
tra mondo anglosassone e (ex-)colonie del sottovalutato Infidels
(1983), entrambi evidentissimi in una spettacolare versione reggae di
Don’t Think Twice, It’s All Right (tutta caricata sul flauto
di Douglas e sulle congas della Hall, ma il titolare le regala comunque
una delle sue migliori interpretazioni di sempre), nell’intercalare
tra strofe e vampate dei fiati di una bellissima It’s Alright, Ma
(I’m Only Bleeding), nel tropico metropolitano di una Shelter
From The Storm non meno riuscita del modello.
Chi evocasse, oggi come allora, l’Elvis Presley
di Las Vegas, o Neil Diamond sugli stessi palcoscenici, convinto di
proporre un paragone deteriore, qualificherebbe soltanto la propria
ignoranza, e non solo perché entrambi gli artisti suddetti hanno offerto
nella cittadina del Nevada spettacoli fiammeggianti, quanto perché il
sofferto ruvidume bluesy vomitato da Dylan, qui, nel rivisitare Repossession
Blues di Roland James e, ancor di più, le 12 battute della
Love Her With A Feeling di Tampa
Red, due oscuri brani adoperati all’inizio di ciascuna serata per far
riscaldare il gruppo, non ha proprio alcunché in comune né con l’uno
né con l’altro. Regolarmente impeccabile Forever Young, in due
versioni da tramonto su Broadway che sarebbero piaciute a Billy Joel,
e disorientante (in senso buono) l’anticlimax strumentale in cui viene
diluita A Hard Rain’s A-Gonna Fall all’inizio della scaletta,
così come prendono in contropiede, per convincere poi su tutta la linea,
una All Along The Watchtower col flauto a sgusciare ovunque,
la fanfara rock and roll di One Of Us Must Know (Sooner Or Later),
il blues’n’roll di Maggie’s Farm e il celestiale trattamento
gospel di una Is Your Love In Vain? imbevuta del soul virile
e spagnoleggiante appartenuto al recente Street Legal (1978),
dove sarebbe peraltro apparsa per la prima volta.
Gli accenni allo spiritual, laico e pagano, tornano anche in I Threw
It All Away, persino nel countreggiare onirico di Love Minus
Zero / No Limit e nel finale blues di Going, Going, Gone;
poi, giusto per sconfessare il pregiudizio di una serie di concerti
messa in piedi solo per pagare le spese del divorzio da Sara Lownds
(da cui il maligno soprannome di alimony-tour), ecco i fuochi d’artificio
di una Like A Rolling Stone mandata
in orbita dal sax, la sobria melanconia di I Want You e Girl
From The North Country, il passo quasi fusion di un’inventiva
Oh, Sister, le percussioni febbricitanti di One More Cup Of Coffee
(Valley Below) e il puro reggae di una peraltro stellare Knockin’
On Heaven’s Door.
The Complete Budokan 1978 è, coerentemente con quanto
Bob Dylan non ha mai smesso di proporre, l’affabulazione di un destino,
una narrazione di storie parallele dove l’autore, usando i suoi brani
come se fossero tracce appena visibili sopra un foglio bianco, riempie
le sezioni vuote con altri colori e altri spunti dai quali emergono
aperture creative di estrema suggestione. Aperture che diventano vive
nel rapporto empatico, turbolento e inesauribile tra noi, l’artista
e la sua capacità di raccontarsi in decine di modi diversi, siano questi
circoscritti dal feeling sudista delle tastiere e dei fiati (ascoltate
The Man In Me) o dalle stoffe folkie del tempo andato, rigenerate
per l’occasione dall’intreccio delle voci (come accade nell’ultima The
Times They Are A-Changin’). Tutti e quattro i CD di The Complete
Budokan 1978 sono attraversati da un vento caldo e rinvigorente
grazie a cui Dylan guarda se stesso come se non avesse punti di riferimento,
invitandoci all’acume dei sensi e a condividere, con lui, l’abbandono
all’ignoto e al desiderio, alla consapevolezza di come il massimo splendore
della fioritura dei ciliegi coincida con quello della loro morte. Scongiurare
il nulla cambiando pelle, identità, aspettative: in questo invito risiede,
oggi, il significato e la bellezza di The Complete Budokan 1978.