Nell’eterno attrito che
ha caratterizzato la loro amicizia artistica, David Crosby non mancava
mai di provocare Neil Young quando si trattava di affrontare l’argomento
Crazy Horse. “Cosa cazzo stai combinando con questi imbecilli?”,
pare gli avesse tuonato contro un giorno, forse inorridito dall’ennesimo
errore di Billy Talbot al basso, il quale non riusciva mai a imbroccare
il giro armonico di Cinanmon Girl. “Sono così pieni di sentimento”,
fu la risposta di Neil. Crosby, che non amava la diplomazia, commentò
lapidario: “Anche il mio cane ha dei sentimenti, ma non gli metto
in mano uno strumento!”. Non era un mistero che David non li avesse
mai capiti veramente, e soprattutto non capiva il motivo di un tale
innamoramento da parte di Neil per quella band così precaria e scalcaganata,
nel suono e nell’attitudine. Il segreto stava proprio lì. E avendo sempre
fatto le cose a modo suo, Neil Young andava avanti testardo,
definendo un’idea di rock’n’roll sull’orlo di un costante precipizio,
una vera e propria alchimia sonora, fatta di dinamiche elettriche sulla
carta casuali e imprevedibili. Quel suono avrebbe influenzato intere
generazioni di musicisti, scrivendo l’alfabeto di buona parte del rock
indipendente americano degli ultimi quarant’anni.
È singolare e anche un po’ ironico che mentre Neil ritornava sulla strada
insieme ai Crazy Horse, dando prima alle stampe l’epocale country
virato alla ruggine elettrica di Ragged Glory e poi accingendosi
a un trionfale tour americano, catturando così quel sacro fuoco che
non era più riuscito ad esprimere dai tempi Rust Never Sleeps,
il suo amico David navigasse a vista, tra i sogni sbiaditi del progetto
Crosby Stills & Nash e di un disco in particolare, Live It Up,
che era l’espressione più spietata (e imbarazzante) delle utopie californiane
naufragate nei tardi anni Ottanta. In quel naufragio era rimasto coinvolto
anche Neil, una lunga notte fatta di dischi incompresi, di vero e proprio
ciarpame, di folli provocazioni e liti legali con la casa discografica
Geffen, salvo risorgere come una fenice a partire da Freedom,
l’album del ritorno a casa. E poi, all’improvviso, Ragged Glory,
la chiamata alle armi dei Crazy Horse, il rinnovato ruggito elettrico.
Quel disco rappresenta l’ingresso trionfale di Neil Young - un piede
sul distorsore e una mano che alza il gain dell’amplificatore fino a
saturarlo - nel nuovo decennio, un album concepito senza mediazioni,
registrato nella primavera del 1990 al Broken Arrow Ranch, buona la
prima e senza ripensamenti e interruzioni (“I Crazy Horse non devono
avere il tempo di pensare”, affermava Neil al tempo). Le canzoni
esprimono un fervore dal tono garage, una baldanza ai confini del punk
rock che approccia la melodia country, mentre interminabili jam chitarristiche
lasciano fluire un maelstrom elettrico che annuncia l’imminente ondata
del grunge, di cui Neil Young diventerà una sorta di padre putativo.
Neil, insieme ai Crazy Horse (Billy Talbot, Ralph Molina, Frank Sampedro)
appronterà un tour trionfale nelle arene l’anno seguente, portandosi
appresso come gruppi spalla i fuorilegge punk Social Distortion e i
rumoristi newyorkesi Sonic Youth, provocando lo shock fra il suo pubblico
di fedelissimi, soprattutto quello innamorato di uno stereotipo neo-hippie
reiterato dagli anni Settanta. Il monumentale, aggressivo e politico
doppio disco dal vivo Weld, minacciato dalle nubi della prima
Guerra del Golfo (nelle scalette entra una versione elettrica di Blowin’
in the Wind), fermerà quel momento, sublimando la ferocia rock dei
Crazy Horse e del loro condottiero.
Way Down in the
Rust Bucket racconta in qualche modo la gestazione di quell’assalto,
la prova generale dell’imminente “invasione barbarica”, uno show suddiviso
in tre set e un bis finale tenutosi nel novembre del 1990 nel piccolo
club di Santa Cruz, California, denominato The Catalyst. Qualche centinaio
di fortunati, la fila fuori dalla porta, un ambiente raccolto e informale,
la band che scalda i muscoli, si rilassa, suona per il semplice gusto
di suonare, cercandosi a vicenda, una complicità maturata nelle lunghe
giornate di registrazioni al Broken Arrow Ranch e ora affilata come
una lama, precisa nella sua imprecisione. Per anni circolato come bootleg
di inattacabile fama tra gli adepti del loner canadese, sia in formato
audio, sia video, Way Down in the Rust Bucket trova adesso la
sua più logica collocazione tra gli “Archivi” ufficiali della carriera
di Young. Una realizzazione sacrosanta (doppio disco, quadruplo lp e
anche intera sequenza in dvd, l’unica che presenta in scaletta Cowgirl
in the Sand, traccia audio compromessa e non utilizzabile nel master
finale), che non svela segreti inesplorati nella formula rock con i
Crazy Horse, eppure ne cattura l’essenza con un album dal vivo definitivo,
una parola quasi sacralizzata sul loro “trasandato” modo di esistere
sul palco.
Sarebbe persino inutile scorrere una ad una le canzoni della setlist,
è semmai il flusso che conquista, il tono gracchiante che non ha ancora
assunto la furia poi impressa nei solchi di Weld, e che pure
attinge a piene mani da Ragged Glory, l'album appena completato.
I brani di quest’ultimo la fanno da padrone: il country rock, pencolante,
collerico e melodico al tempo stesso, di Country
Home, Days That Used to Be e Mansion
on the Hill, il garage rock sfilacciato di Farmer John,
le lungaggini jam di Over and Over, Love
to Burn e Love and Only Love sono specchio fedele
di quanto catturato anche in studio. La sola Fuckin’ Up sembra
essere qui più contenuta e in parte inespressa, ancora in procinto di
diventare quel bisonte elettrico che sgroppa furibondo nella prateria.
Nel mezzo sorprese che non ti aspetti, come l’eccellente Surfer
Joe and Moe the Sleaze, qui per intensità riportata letteralmente
a nuova vita rispetto alla versione presente sul controverso Reactor
(da cui arriva anche la svalvolata provocazione boogie di T-Bone),
oppure una dimenticata Bite the Bullet, da American Stars
n Bars, e ancora i filamenti settanteschi che si trascinano in Don’t
Cry No Tears, Danger Bird e nell’alticcio country rock da
bettola di Roll Another Number (For the Road)
e Homegrown, o nel furore punk di Sedan Delivery.
Il suono dei Crazy Horse si rivela spontaneismo primitivo in
azione, procede zoppicante, approssimativo, in alcuni passaggi astratto
e in altri ossessivo. Spesso dà l’impressione di perdersi, di danzare
sulle stesse note e sugli stessi accordi quasi in maniera maniacale.
La band fornisce una traccia, uno schizzo sul quale Neil Young è libero
di ricamare con la Gibson, di pungere preciso o in alternativa di volare
nell’iperspazio. Sembra abbeverarsi a quella stessa apparente “incuria”
per lanciare gli strali della sua improvvisazione, in una forma a tratti
ispiratissima, livida e stellare per l’intero Way Down in the Rust
Bucket. Nel finale, due ore e mezza di esibizione sul filo del raosio,
i topoi della storia con i Crazy Horse risalgono in superficie e deflagrano:
i quasi tredici minuti di Like a Hurricane
sono pietra scolpita nella storia e gli undici e oltre di Cortez
the Killer la coda fluente di un sogno elettrico.
Forse nessun grande autore rock è stato in grado a ricavare un rapporto
così espressivo dalla propria band nonostante i pochi mezzi a disposizione:
qui non è in azione una perfetta, oliata macchina che sputa rock’n’roll,
qui non ci sono gli Heartbreakers o la E Street Band, questa è piuttosto
una forma di catarsi, un’intesa intellettuale primitiva tra un uomo,
la sua nera Gibson, le sue canzoni e un gruppo che al tempo stesso lo
sostiene e lo lascia libero di proiettarsi nelle inquietudini più recondite
della sua anima.