Eric
Andersen
Avalanche
7
Eric Andersen
7.5
[Runt/
DBK works 2008] Nel
1970, i "favolosi sessanta" sono appena finiti, e non solo per una pura coincidenza
temporale. E' l'idea stessa di racchiudere il mondo e le sue storture nella manciata
di minuti di una canzone ad essersi incrinata. La me-generation e il suo ripiegamento
ossessivo sulla vita privata degli autori, su ansie, speranze e disillusioni che
non sono più quelli di un movimento intero, bensì di un singolo soggetto, è alle
porte. Eric Andersen, nato a Pittsburgh, Pennsylvania, nel 1943 ma giovanissimo
volato a New York per acciuffare il fiume di parole di Bob Dylan e il giornalismo
cantato di Phil Ochs, ha già realizzato sei dischi, assumendo tuttavia l'abitudine
di non dare nulla per scontato. Ha già dato voce (e che voce!, aspra, bassa, tenorile,
maschia e sofferta come uno dei violenti "concetti spaziali" di Lucio Fontana)
a chi, dietro le vetrate di una coffeehouse del Greenwich Village, sognava di
cambiare il corso della politica americana a suon di folk e country, e ora è pronto
a estrinsecarne dubbi e ripensamenti. Il suo campione di vendite, l'ancora
magnifico Blue River (1972), è a un passo dal vedere la luce, ma gli Avalanche
ed Eric Andersen usciti due e tre anni prima, incarnano per il momento
una splendida transizione confusa e lacerata, manufatti irripetibili da un'epoca
in cui persino una major - la Warner Bros. - poteva pagare l'affitto di una sala
di registrazione a un folksinger desideroso soltanto di imprimere incertezze,
tormenti e inquietudini di una generazione sui polimeri di un acetato di vinile.
La DBK Works di San Francisco li ristampa oggi con la consueta sciatteria, evitando
accuratamente ogni collocazione di ordine cronologico e dimenticandosi persino
di indicare musicisti o tecnici coinvolti, ma visto il disordine con cui è stata
sinora ristampata la discografia dell'artista, un'imprecisione in più o una in
meno non toglieranno agli appassionati il piacere di riscoprire due pagine in
genere dimenticate (trascurate di sicuro) del suo periplo: un cammino creativo
che nei suoi momenti migliori, e non sono pochi, vale tanto quanto il Bob Dylan
più rivoluzionario, la Joni Mitchell più raccolta o il Lou Reed più affilato.
Avalanche, primo album licenziato all'infuori di uno storico
sodalizio con l'etichetta Vanguard, esce dopo il delizioso esperimento rootsy
di A Country Dream ('69) e in parte ne sconfessa il pimpante e vivace tradizionalismo.
I sentieri battuti sono quelli di una canzone folk gracile e introspettiva, sovente
perduta nel vortice onirico dei propri pensieri. It's
Comin' And It Won't Be Long è un consistente apocrifo dylaniano, ma
i pensosi vagabondaggi folkie di So Hard To Fall o
Think About It, appena sgrezzati da cori femminili
e orchestrazioni leggere, non fanno nulla per non assomigliare a monologhi rivolti
dall'autore alla parte più intima del proprio io. Come se l'ispirazione di Andersen
seguisse un duro confronto personale, un serpente di riflessioni in ogni istante
pronto a mordersi la coda, non c'è uno spiraglio luminoso che non sia l'elegia
bohemienne di (We Were) Foolish Like The Flowers,
mentre il vortice angoscioso delle meditazioni si addensa fino a sfociare negli
otto minuti visionari di For What Was Gained,
lungo tormento confessionale di un ragazzo morto in Vietnam che spazza via l'anti-militarismo
in fondo ottimista di Thirsty Boots o Violets
Of Dawn rovesciandogli addosso una cappa di pessimismo quasi irrespirabile.
Più accessibile il successivo Eric Andersen, di nuovo
imperniato su di un country-rock soffice e arioso infarcito di steel, controtempi,
percussioni e sbuffi honky-tonk. It Wasn't A Lie,
Secrets e I Will
Wait si presentano ancora quali ballate scontrose e per nulla ammiccanti
nei confronti dell'ascoltatore non sintonizzato sulla poetica minimalista del
nostro, ma il rockabilly elettrico di I Was The Rebel
(She Was The Cause) o l'inconfondibile impronta country-soul di una
Don't Leave Me Here For Dead che sarebbe piaciuta
a Spooner Oldham, catturano Andersen in una delle fasi più estroverse della carriera.
Sign Of A Desperate Man e
She Touched Me, con quelle rasoiate d'organo quasi funky, avrebbero
potuto infoltire il catalogo di Dusty Springfield o Charlie Rich; la delicatezza
pianistica di Go Now, Deborah tradisce invece
un ascolto non distratto dei Beatles di Revolver ('66) e dell'accorata For No
One in particolare. Non saranno imperdibili, Avalanche ed Eric Andersen,
dacché, se proprio volete andare a ritroso nel curriculum dell'artista, gli vanno
senz'altro preferiti il citato Blue River, lo spartano esordio Today Is The Highway
('65), l'incompreso Ghosts Upon The Road ('89) o il recente Memory Of The Future
('98). Ma rappresentano comunque tappe significative nel percorso di un musicista
che solo il destino cinico e baro può aver relegato al confino avvilente degli
"eroi di culto". (Gianfranco Callieri) www.ericandersen.com
www.runtdistribution.com/dbk
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